Intervista a Eugenio Bennato sulla riapertura: ‘L’elemento più invisibile e pericoloso è la paura’
di Davide Speranza
La riapertura (politica) del governo Draghi non solo ha messo a nudo la voglia irrefrenabile di liberarsi delle quattro mura di casa, ma ha messo nel conto delle nostre coscienze anche un altro sentimento: la paura. Paura di riprendere. Paura di contagiarsi. Paura del lavoro che non c’è. Paura del chiasso e degli assembramenti, degli altri più scaltri e impavidi. Di una generazione distaccata dal tangibile. Paura del futuro. Intanto, teatri e cinema stanno spalancando le porte.
Sui giornali si grida al miracolo e alla riapertura dei luoghi della cultura. Poi scopri che molti di questi “luoghi” sono piccoli, non funzionali alla nuova libertà, fuori dalle odierne predisposizioni e quindi indigeste per lo stomaco di un mondo altro (e non rinnovato) che sta prendendo piede. La musica e i concerti vengono visti di sguincio. E allora? Allora, nasce la protesta. Di chi? Degli artisti, dei creativi che cercano di far sentire la propria voce nelle piazze, che provano a smascherare senza pudore quelle paure tenute sotto coperta, per chiarire che il futuro – come qualsiasi altro lavoratore – lo vogliono costruire.
E se non fosse così? Questo era il grido di pace e di libertà lanciato in Piazza Dante a Napoli, nel pieno svolgersi della Liberazione. Decine di artisti si sono riversati nell’emiciclo affacciato su via Pessina. Musicisti, trampolieri, cantanti, performer. Tutti sotto lo stendardo pacifico e gioioso dell’evento “Contropaura”. A organizzarlo Nenne Martongelli, dj vinilico e fotografico, Hassan Black, promotore da decenni delle serate napoletane, e Antonio Turco, creatore del format Vinyl Session. A portare la sua testimonianza anche Eugenio Bennato, il cantore del Mediterraneo e delle tradizioni popolari di un Sud che, forse inconsapevolmente, non si ritrova ad essere contro ma oltre la globalizzazione. Ci passa sopra, come un mondo a latere, qualcosa che pulsa a prescindere. Anche Bennato ha lasciato intendere che la paura domina gli animi della gente, ma qualcosa di diverso è possibile.
Maestro, dopo più di 400 giorni si riparte. Che cosa passa per la testa della gente?
Non voglio entrare nel merito di tutta la confusione della pandemia, dei vaccini, delle contromisure. È un discorso a parte che sicuramente è molto intenso e per certi versi difficile. Voglio dire invece che l’elemento più invisibile e pericoloso è la paura. Intendo riferirmi alla capacità dei mezzi di comunicazione di istigare al distanziamento che non è funzionale a un abbattimento del virus, ma asservito ad altre cose perverse, come la comunicazione a distanza, lo smart working, in pratica il virtuale. Personalmente vivo da decenni il reale, che è fatto di incontri, di suoni diretti e veri. Esiste oggi una separazione netta tra un mondo globale e un mondo identitario. La tammurriata rappresenta l’identità, la voce di una etnia, di un villaggio, di un paese che si contrappone alla globalizzazione, a una realtà dove sono tutti uguali, tutti con la stessa marca di scarpe e le stesse idee. La paura è quella che rischia di rimanere e di portarci un’umanità in gran parte terrorizzata.
Che ne è della musica oggi?
Per quel che riguarda la mia esperienza personale, la questione è traumatica e forte. Questa esperienza ha prodotto però intuizioni nuove. C’è un brano che ho scritto mesi fa e che si intitola “Notte del giorno dopo”, ovvero il sogno di un ritorno, una notte del “day after”, con tutte le perplessità di quel che accadrà. Sono sicuro che il ritorno sarà ancora più intenso e non vedo l’ora di ritrovare i musicisti, gli artisti. Dobbiamo renderci conto che questo tempo vissuto è stato così schiacciante da aver prodotto nuovi modi di vedere. Il contatto manca e spero si riattivi subito tutto. Certo, niente è più come prima. Andiamo nella direzione giusta quando parliamo di una tammurriata in diretta o taranta, in contrapposizione al linguaggio del digitale. Un linguaggio del reale è fatto di chitarre vere e dialetti.
Progetti futuri?
Durante questo periodo ho lavorato. Sono stato a Milano, invitato a un grande concerto fatto nella Basilica di Sant’Ambrogio. È significativo che da Milano continuiamo a ricevere proposte di concerti, cioè dal Nord. Poi siamo stati all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Naturalmente a porte chiuse. Ma si riprenderà. Sto vivendo alla giornata, scrivo le mie sensazioni. Quel che sto realizzando nei miei testi non può essere scisso da questo trauma. Non si può parlare a cuor leggero di cose che non contemplino la realtà drammatica che stiamo vivendo.