‘Non si guarda alla vita solo con gli occhi’ – Il campanile di San Michele

di Fernando Gerardo Basile

 

La luna, rossa, grossa come una mongolfiera al decollo, si alzava sopra l’Ofanto, tra le balze boscose di Monteverde e le pendici del Vulture.
Un’altra lunga serata incominciava, un’altra lunga serata da inventare.
Su e giù per il corso del paese il gruppo di amici si interrogava sul da farsi: non era facile immaginare come chiudere in bellezza i giorni che si succedevano desolatamente uguali nella tarda estate.
I giorni: uguali; ma le notti!
E la notte avanti?

In una viuzza del centro del paese, per caso, si era all’improvviso spalancata ai loro occhi, al lume fioco della piattina smaltata che fungeva da lampione, l’incredibile visione di una cantina ben attrezzata, dagli alti scaffali numerati, pieni di bottiglie sigillate con una capsula di gesso sopra il tappo di sughero.
Nel silenzio sbalordito, le loro gole deglutirono all’unisono; anche quella di Mario che, come al solito, aveva già intuito tutto.

Michele, sommelier dichiarato, anzi, autodichiarato, prese con delicatezza una bottiglia e, guardandola in controluce alla fiamma di un accendino, ne descrisse ad alta voce il brillante e trasparente colore rubino, per la gioia degli astanti.

Senza indugio, Angelo, tecnico pratico di ogni impresa, assistito con sollecitudine da Donato, si ingegnò di aprirla, seguendo scrupolosamente le indicazioni del sommelier.
-Fernando, prendi nota!- Mario mi delegava il compito di fissare nella mente la scena, per i futuri esiti letterari della stessa.

Nel frattempo, l’uomo dalle mille risorse, Emidio, era tornato con i bicchieri e una capiente caraffa, naturalmente di cristallo, nella quale travasare il rubino liquido, senza che si intorbidisse con i residui del fondo della bottiglia.
Nell’ansiosa tensione dell’attesa generale, dopo aver annusato, per una eternità, il liquido, e dopo aver roteato con gesto teatrale il bicchiere, Michele lo portò alle labbra.
Tutti avemmo l’impressione di provare, nelle nostre bocche, il lavorio critico delle sue papille gustative!
-Che nettare!- sentenziò.
Ma più che l’espressione vocale, eloquenti furono i suoi occhi rivolti al cielo – a Bacco?- e il tremolio del baffo appena lambito dal nettare divino.
Vecchio di una decina di anni -lo denunciava l’etichetta dello scaffale- il vino era fresco e fragrante come il suo colore. Sentori di fragole e nocciole vi si fondevano in perfetto equilibrio, distillati dalle basse viti di aglianico nei terreni argillosi del Lagarone.

Donato, fregandosi le mani, abituale suo gesto di soddisfazione, diede l’assenso.
Dopo il sommelier ufficiale -o forse prima?- era lui l’autorità enologica indiscussa.
Angelo, frattanto, già apriva un’altra bottiglia. In tutto, ne aprì una decina. Una sola lasciò un po’ interdetta la professionale degustazione critica del sommelier. Mario non ci badò: ne tracannò immediatamente il contenuto; con soddisfazione!

Quante serenate portammo quella notte a inconsapevoli presunte fidanzate!
Venere, a oriente, poco sopra il limite scuro delle “macchie”, il bosco a monte del paese, brillava appena, nelle trasparenze azzurre antelucane, quando andammo a dormire.
Lungo il passeggio, Michele non la finiva più di raccontare tutto questo a Vincenzo, delusissimo di non avervi preso parte, malgrado affari di cuore piacevolissimi l’avessero trattenuto a Salerno
-Sì, ma stasera che facciamo?- Mario, davanti alla “chianca” di Salomone e agli agnelli appesi a frollare, con il suo solito decisionismo, ci richiamava al presente, con la vaga speranza che qualcuno riproponesse l’esperienza passata: la cantina.

Nessuno se la sentì di fare la proposta; la folla per il corso inibiva tale decisione, quasi fosse attenta a spiare l’evolvere degli eventi.

La luna, intanto, alta nel cielo, sbiancava in cima al campanile di San Michele.
-I piccioni torraioli!- esclamammo nello stesso attimo io e Angelo.
L’assenso di Michele e Mario fu immediato; Vincenzo si illuminò in volto, dando scarso credito al diniego, già previsto, di Donato, che era la nostra vigile razionalità, il buon senso che ci frenava nelle esagerazioni che, poi, tuttavia, accettava, anche se malvolentieri.
I piccioni di San Michele, la riserva di proteine del rione Seminario, appannaggio di pochi eletti, che ne prelevavano un buon numero ogni anno.
Era la serata buona. Mario ne era entusiasta. Abitava nei paraggi del convento, quasi all’ombra del campanile, ma non aveva mai goduto del prelievo.

-Non fate gli imbecilli! è pericoloso; di notte poi come fate a prenderli?-
Donato faceva la sua parte.
-Di notte non volano, non ci vedono manco loro!- con queste parole Mario lo zittì definitivamente e tutti insieme partimmo per la caccia notturna.

Per strada si aggregò anche Pasqualino “nananà”, avendo intuito che la nottata si prospettava interessante: sarebbe salito sul campanile con me, Angelo e Michele; Donato, Mario e Vincenzo avrebbero fatto la guardia.
Anche Mario avrebbe fatto la guardia; di notte ci guidava lui quando andavamo a rubare le fragole nella vigna di comare Antonietta ai “muraglioni”; oppure quando andavamo a funghi, di notte, nei boschi di Pescopagano.
Fiutando l’aria andava a colpo sicuro, e noi con lui; anche quella volta che nel bosco di Granito ci stese tutti dal ridere esclamando a gran voce: nun s’ vede manc’ lu cazz’.

Dalla parte alta del paese, al lume delle luna, le pendici dell’Abetino sembravano di velluto e il torrente Arso un orrido misterioso. L’assiolo, nel bosco vicino, emetteva il suo chiù, che echeggiava, intermittente, tra monte Calvo e la Sella delle Serpi.

Con la sua grande ombra, il campanile incombeva perentorio e provocatorio sulle case intorno e sui platani di largo Episcopio che stormivano lievi: se ne sentiva il fruscìo come di respiro.
Nei nidi i colombi sognavano lussuriosi, emettendo ogni tanto sommessi singulti.
Angelo e Pasqualino, pazzi, ancora adesso mi viene la pelle d’oca, sul cornicione esterno, a vari metri di altezza, infilavano le mani nei buchi a ghermire la preda. Michele cincischiava, come al solito. Io, lentamente ma tenacemente, mi arrampicavo al di sopra della campana, all’interno della cella campanaria, per arrivare a mettere le mani sul cornicione d’appoggio della cupola, dove speravo di fare ampia preda.

Il boato fu spaventoso!
Una grossa pietra, staccatasi dal muro sotto le mie mani -non so come non caddi anche io- aveva colpito la campana.
Il rombo, nel silenzio delle notte, rotolò dal campanile sul quartiere Seminario, sul paese, nella valle, fino all’Ofanto.
La luna impuntò nel suo corso rabbrividendo nel gelo cosmico.

I piccioni, pochi a dire il vero -qualcuno, evidentemente, già aveva provveduto a decimarli- i piccioni gorgogliarono spaventati.
Ma, cosa più grave, cominciarono a illuminarsi le case dei dintorni e ad affacciarsi sugli usci le persone subito sveglie.
-Rubano le campane di San Michele!- urlò una vecchietta, memore dei “santangiolesi” che erano venuti a prendersi varie cose nel Seminario prima che il vescovo lo chiudesse.
-Rubano le campane!- gridavano ormai molti.

Mario, tempestivo e opportuno, prese a gridare anche lui la stessa cosa, imitato da Vincenzo. Poi, insieme a Donato, si allontanarono dal campanile giù verso la Chiesa Madre, fingendo di inseguire i presunti ladruncoli, per distrarre le numerose persone che erano ormai partecipi dell’evento.
Il trucco funzionò.

Mentre la folla, o comunque l’attenzione di tutti scendeva verso la piazza seguendo le urla fuorvianti dei due -Donato non sapeva se ridere o piangere- noi scalatori del campanile ce la filammo su per l’Episcopio, ridendo come matti per l’esito più che felice dell’impresa che, a ben pensarci, avrebbe potuto avere un esito peggiore.
E il bottino?
Angelo ce lo mostrò: due piccioncini implumi, che facevano tenerezza solo a guardarli.
Pasqualino non li degnò di considerazione.
-Li prendo in consegna io -fece Michele- li porto a casa e per qualche mese li allevo, così, almeno, ne potremo fare una cena dignitosa, magari imbottiti alla Luis, feroce sterminatore di colombi e vecchia gloria della ristorazione in Alta Irpinia-.

Angelo non ne sembrava tanto convinto; ma una volta ricongiuntici tutti, sulla “troppa della fontana”, nella piazza, appena vellicata dal fluire dell’acqua dai canali e ancora per poco silenziosa, democraticamente, ma non senza svegliare il vicinato con l’accesa discussione, consentimmo alla richiesta.
Per un mese intero Michele ci informò dei progressi nella crescita dei piccioni.
A sentir lui, a dar retta alla sua enfasi declamatoria, facevano concorrenza agli struzzi di Vito Piccininno, quanto a peso. Angelo, diffidente, per tutto il tempo cercò di verificarlo. Non solo; come forma di precauzione si presentò ogni giorno a ora di pranzo a casa del sedicente allevatore, trovandovi puntualmente anche Vincenzo, altrettanto scettico e guardingo.

Non riuscimmo, tuttavia, a gradirli cucinati in una cena delle nostre.
Zia Rosina, i colombi, li aveva preparati al figlio, in brodo, subito il giorno successivo all’impresa, insieme ai tagliolini fatti in casa: da leccarsi i baffi!
Cosa che Michele aveva puntualmente fatto.
– Solo per dare soddisfazione a mamma- ci disse, e a scusante ulteriore e definitiva- e poi, pigolavano ch’era uno strazio!

Mario, duro, non si commosse affatto; anzi, ne pretese il risarcimento, la volta che, a Bisaccia, impegnati in un tour politico-culinario, ritrovatisi entrambi nella trattoria di Luis, analizzando e discutendo della politica del loro P.S.I. e di Craxi, fecero fuori, programmaticamente, tutta la colombaia.

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