‘Non si guarda alla vita solo con gli occhi’ – La suonarono e la cantarono alla notte
di Fernando Gerardo Basile
Si incontrarono in una sera di luna piena, una di quelle sere di magia sospese nello spazio senza tempo della favola, del racconto mitico; una di quelle sere in cui tutto diventa possibile: cercare il tesoro sul monte Travagliuso; far scomparire i conigli dalle gabbie; incontrare per caso degli amici; vivere e raccontare delle storie; cose di ordinario accadimento, comunque.
Ma che un’armonica, un violino e una chitarra si incontrassero con una damigiana e che tutt’insieme decidessero di suonare, ebbene sì! questo poteva capitare straordinariamente solo quella sera, con quel faccione candido nel cielo, tanto luminoso da ridurre le stelle, una a una, in una nebbiolina impalpabile biancastra.
Una damigiana assieme a tre strumenti musicali? Sì, perché? non avete mai ascoltato i suoni vari e diversi di una damigiana da dieci litri, da quando viene riempita a quando viene svuotata? Noo?
Che vi siete persi!
Non avete idea del suono argentino, del gorgoglìo allegro, di piacere, che emette mentre si apre al rivolo del vino di una vecchia vigna di Aglianico verace. Poi, man mano che si riempie la pancia, il suono si fa più dal di dentro, più profondo, di soddisfazione, fin quando, all’orlo, diventa un sospiro lieve lieve.
Però, quella sera – ah la malia della luna piena appesa, come a un pennone, al campanile di San Michele, al Seminario!- la damigiana non vedeva l’ora di far sentire i suoni di quando il piacere ricevuto lo restituiva, una volta che, fattasi vaso, potesse riversarlo in altro vaso capiente.
Mario, che, malgrado tutto, specialmente di notte ha sempre visto meglio e prima degli altri, la percepì corposa e disponibile, l’abbracciò affettuoso, compiaciuto, e si dichiarò suo concertatore, prelevandola premurosamente, senza sforzo apparente, dalle mani di Emidio: di Emidio ‘Richelieu’, il creatore del “Rosso Marcellino”, vino prodotto con cura certosina nella antica vigna di famiglia ubicata sul pianoro a cui suo nonno aveva dato il proprio nome; vino rosso porpora, cardinalizio appunto, del colore di una sacra scazzetta, profumato di fiori di campo e di viole; sapido di sorbe, fragole di bosco e di nocciole.
Da rallegrare anche una notte nera!
Gli altri strumenti, per non essere da meno, si fecero subito avanti, risoluti.
Il violino, complicato e sensibile, si affidò naturalmente ad Antonio Scolamiero, in arte “Paganini”, pronto a sollecitarlo, a carezzarlo, a vellicarlo con l’archetto, ricordo di suo padre, zi’ Rocco il sacrestano.
La chitarra non ebbe dubbi, si accordò immediatamente con Domenico Cicenia, suo sodale già da lungo tempo, svelto di dita e di gola ben impostata.
E l’armonica?
Esitante, si capiva dai singulti emessi, scelse Fernando, forse solo per permettere alla sua decennale buona volontà di riuscire finalmente a modulare un blues.
Michele ci rimase male!
Gli altri più di lui! Ma per motivo diverso; che Mario, sottovoce, esplicitò immediatamente: – Non è che gli viene il pallino di cantare?-
Rabbrividirono tutti al solo pensiero.
Si videro persi, pensarono con orrore ai suoni bistrattati dalle sue stonature, soprattutto a quelli della damigiana, che Mario continuava ad abbracciare come per confortarla del pericolo imminente.
Michele che cantava? che offesa nei confronti di strumenti degni di ogni rispetto, – e commiseravano tutti la damigiana- -e dagli con la damigiana-
Se di essa fosse stato lui il concertatore, tanto di cappello! Sapeva evocarne i suoni più reconditi, assecondarne le qualità musicali più di ogni altro, sollevarla amorevole verso il cielo perché ne fluissero sonorità di….. vino. Aveva più volte data testimonianza di ciò.
Mario però lo aveva preceduto nel possesso. Non l’avesse mai fatto!
C’era il rischio che Michele decidesse di cantare: sai lo strazio!
Tanto era fine dicitore, di interi paragrafi di prosa, di poesie classiche e moderne, in italiano o in lingua partenopea; tanto era stonato più di una campana.
Tanto modulava la voce con perizia d’attore consumato, anche recitando in “arabo-conzese”, lingua di sua unica conoscenza, che gli affiorava alla mente e alle labbra solo nelle grandi occasioni; tanto faceva scempio di canzoni, persino degli stornelli popolari che, lo sanno tutti, sono di bocca buona.
– Mario, tu che abiti quasi all’ombra del campanile, da quando tempo non senti il suono della campana di S. Michele?-.
– Fernando, da quando tu non ti diverti più a farla suonare con il tiro ben mirato di un sasso –
-E dai, che ti possono sentire, la notte ha mille orecchi! Da quando non senti il battaglio battere le ore o la gloria a distesa in un giorno di festa?-
-Perché, c’è ancora il battaglio?-
-Si, lo vedo pendere immobile, inespresso, al lume della luna che occhieggia dagli archi della cella campanaria-
-…..Ho capito, abbiamo risolto il caso di Michele –
– No, credo l’abbia già risolto lui.- che intanto se ne stava in disparte a contemplare riflessivo il massiccio pendente.
Fu così che nel chiarore lunare, comparvero, in cima al campanile, affiorando dal mistero delle tenebre: un violino una chitarra e una armonica, con i rispettivi concertatori; un vignaiolo col soprannome di un cardinale; una damigiana abbracciata stretta stretta dal suo amorevole accompagnatore; e, udite udite, Michele con il batacchio della campana tra le mani, finalmente anche lui strumentista di livello.
Mario, per lo scampato pericolo, diede subito voce al suo strumento:
la damigiana emise uno schiocco promettente, dopodiché cominciò a suonare gioiosa nelle bocche dei presenti, indugiando a riversare melodie nella gola stonata ma capiente del novello campanaro, che corrispose da par suo, dandole e dando agli altri una bella lezione di armonia.
Non solo: dopo aver riconsegnato il panciuto strumento, afferrato il batacchio a due mani, colpì con un gran colpo la campana, che emanò un suono corposo, come se provenisse dal profondo della damigiana.
L’universo intero stupì e prestò attenzione.
E nel silenzio vibrato che seguì, si sentì la sua voce chiara recitare (recitare per fortuna):
“Tre viecch prufessur e’ cuncertin,
nu iuorn nun sapevan che fa,
c’armonica, a chitarr e o violino
‘mparviso ietter’ a sunà”.
Gli strumenti, chiamati in causa, in sordina, cominciarono ad accompagnarlo. Anche la damigiana, ben concertata da Mario, dava il suo contributo, fornendo sorsate armoniose al concertino, sotto lo sguardo compiaciuto di Richelieu, che immortalava la scena con flash fotografici opportuni.
Dalla cella campanaria la voce fluiva nitida e modulata, ondeggiava sugli embrici argentei dei tetti, scorreva per la grondaie sospese, varcava le finestre e i balconi, indugiava nelle camere da letto insonni per la calura estiva.
“O paraviso nuosto è chistu ccà” concluse Michele, che al crescendo finale della chitarra, del violino, dell’armonica e…della damigiana aggiunse, come un muezzin in cima a un minareto, una invocazione in arabo nostrano e il suono a distesa della campana, così vigoroso da allarmare le sette vergini fatali promesse a ogni uomo virtuoso e gli angeli innocenti che giocavano a nascondino dietro i tigli dal profumo celestiale.
Nella campagna intorno, allertata, i grilli abbassarono il volume; le volpi già nei pollai, intenerite, risparmiarono galli e galline; i rapaci notturni graziarono i topolini.
Mario, anche al pensiero delle sette vergini che considerava ormai alla sua portata, nell’estasi vinosa, rideva e piangeva di gioia!
Iniziò il vasto repertorio di musica e canzoni di ogni genere, e procedette a lungo, inframezzato dagli interventi poetici, in varie lingue, del fine dicitore, sempre più ispirato e col batacchio scosso a ogni nuova strofa.
Il paese, nel pieno della notte, si interrogava: -di quanti litri sarà? Per quanto tempo ancora verrà suonata ? e i maestri, chi erano i maestri; e il poeta; e l’arabo, quale dei vu-cumprà che giravano da tempo in zona?
“Blu moon” modulò l’armonica; “blu moon” arpeggiò la chitarra; il violino ne riprese il motivo in un assolo struggente; la campana lo sospinse in cielo, mentre già risuonavano le note di “Summer time”.
Lacrime o gocce di vino?
Le lacrime di Mario erano ormai rosse; almeno così sembrò nell’ombra.
Ma piangeva per il vuoto che sentiva dentro….. la damigiana improvvisamente afona per aver travasato tutta se stessa.
Il silenzio calò sul campanile.
Il batacchio penzolò immobile!
Appendice ormai superflua, solo percorsa da un rimpianto sonoro.
Né l’applauso improvviso e le richieste impreviste del bis, che si alzarono dalle case e dai vicoli del rione Seminario, come dalla platea di un magnifico teatro, poterono trattenere le ombre schive che fuggivano i primi albori.
La malia, come la luna che sbiadiva, svanì all’improvviso, sospinta via dal vento fresco che scendeva sempre più vivido dalla Sella delle Serpi, nell’alba già luminosa.
Rimase la damigiana, ai piedi della scala di pietra, abbandonata, annichilita, ridimensionata, priva di spirito vitale.
La raccolse premuroso “Richelieu”.
Apprezzandone con consapevolezza il valore, o meglio, la capacità, guardò fiducioso all’avvenire di essa.
Richelieu , Richelieu ! Finchè ci sarà la luna in cielo…!
Un concertino si potrà di nuovo fare, anche se il cardinalizio “Rosso Marcellino”, diventato, nel frattempo, per somma qualità, rosso papale, meriterebbe i madrigali di Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, Conte di Conza.
Ed il batacchio? È sparito: con buona pace di Michele, non penzola più sotto la campana.
Sarà finito in uno di quei recessi segreti in cui vanno a nascondersi, per lo sconforto, gli arnesi in altri tempi atti alla gloria, ma al presente inutili, perché mal compresi dalla ignoranza dei contemporanei.
Come è vero che le emozioni che racconti ti restano a lungo aggrappate addosso!
Un racconto davvero splendido.