Venezia 78 giorno 2. Paolo Sorrentino si racconta e realizza il suo film più sincero e viscerale
Grande mattinata per il Concorso veneziano di questa 78° edizione della Mostra del Cinema. Oggi al Lido, infatti, è stata la volta di Paul Schrader e Paolo Sorrentino (Paul + Paolo, verrebbe scherzosamente da sottolineare). Il regista statunitense ha presentato in concorso lo splendido Il collezionista di carte, prodotto da Martin Scorsese, in uscita domani nelle sale italiane, storia di un reduce dall’Iraq appena uscito dal carcere, interpretato da un bravissimo Oscar Isaac, il cui passato verrà svelato man mano nel corso di una narrazione tesissima, che non rinuncia tuttavia all’introspezione. Scritto e diretto magistralmente, è un apologo politico ed esistenziale, nuova straordinaria variazione sui temi schraderiani e scorsesiani della colpa e della redenzione, entrambe costrette a passare necessariamente per la violenza.
Con È stata la mano di Dio, suo nono lungometraggio, Paolo Sorrentino è tornato alle origini, nella sua Napoli, la città natale in cui aveva ambientato il suo ottimo esordio, L’uomo in più, che proprio a Venezia ebbe il suo lancio. Sono passati esattamente vent’anni da quella folgorazione, Sorrentino è ormai un regista di successo, uno dei più importanti del nostro cinema, ricoperto quasi ovunque di premi prestigiosi, amato e ostracizzato quasi in egual misura da molti addetti ai lavori. È stata la mano di Dio è una storia dai forti accenti autobiografici, un romanzo di formazione imperniato su un ragazzo che vive in un quartiere-bene nella tumultuosa Napoli degli anni Ottanta. La città partenopea di quegli anni viveva un periodo di grande decadenza e abbandono. L’improvviso arrivo di Diego Armando Maradona, il più grande calciatore di tutti i tempi, segnò per Napoli una sorta di riscatto simbolico attraverso lo sport più popolare.
A quel tempo, il protagonista del film, l’adolescente Fabietto Schisa, è un ragazzo timido e impacciato, senza amici, attorno al quale ruota una famiglia in cui trovano spazio un padre fedifrago che ama atteggiarsi a comunista, una madre amante degli scherzi, una sorella sempre chiusa in bagno e un fratello maggiore che sogna di lavorare nel mondo del cinema. Quest’equilibrio, abbastanza fragile, è reso ancora più difficile da un contorno di parenti folli e bizzarri, tra cui spiccano la psicolabile zia Patrizia, sposata con il manesco e geloso zio Franco, un prozio che sogna la venuta di Maradona, al quale attribuisce poteri quasi salvifici da deus-ex-machina, oltre a una pletora di zie e zii dall’aspetto osceno e dalla losca doppia vita, e a vicini a dir poco insoliti: un ragazzo debole di mente, una vecchia baronessa, una famiglia trentina.
La vita scorre via tra pranzi all’aperto, nello splendido scenario di Massa Lubrense, in penisola sorrentina, animati dalla presenza di queste figure grottesche, un bestiario umano, nel descrivere il quale un Sorrentino più misurato del solito calca talvolta un po’ troppo la mano, finché un evento tragico e inatteso sconvolgerà la vita di Fabietto e lo costringerà a maturare tutto d’un colpo. È stata la mano di Dio è un’opera girata in stato di grazia, probabilmente il miglior film di Sorrentino dai tempi de Il Divo, che va a ritagliarsi un posto tra le vette della filmografia del regista. Si tratta senza dubbio del suo lavoro più viscerale, intimo e sincero, nel quale il talento dell’autore oscarizzato si dispiega al meglio, sebbene non manchino qualche parentesi opaca (su tutte, la sequenza con la presenza-assenza di Fellini) e qualche lungaggine, soprattutto nella parte centrale (asciugare qualche passaggio, togliendo qualcuno dei 130 minuti del film avrebbe forse giovato).
Sorrentino ritrae una Napoli sfaccettata, tutto sommato autentica, in cui il folclore e la superstizione (il “munaciello”, San Gennaro, la “santità” di Maradona) ben si fondono con una grande e inesausta vitalità artistica, rappresentata da luoghi come lo splendido cinema-teatro “Galleria Toledo”, vera e propria oasi artistica che ancora oggi resiste nei famosi Quartieri Spagnoli. Il regista raduna e mette in fila tutte le figure umane e artistiche fondamentali della sua vita: accanto all’ineludibile omaggio a Federico Fellini (in una delle sequenze meno riuscite, va detto), sua massima fonte d’ispirazione, c’è spazio per il collega-mentore Antonio Capuano (per il quale Sorrentino collaborò alla sceneggiatura di Polvere di Napoli), che insegna a Fabietto l’importanza e il valore della libertà nel processo artistico, per arrivare a Maradona, probabilmente il massimo esempio storico del rapporto di osmosi tra un calciatore e una città.
Mettendosi completamente a nudo, Sorrentino si immerge nel tragico episodio che ha contrassegnato la sua vita (la morte dei genitori, deceduti insieme in seguito alle esalazioni di monossido di carbonio), regalando, nella narrazione di quell’evento, il momento più doloroso e struggente di tutto il suo cinema, pur senza rinunciare, anche in quell’occasione, a chiudere con uno sberleffo, quasi timoroso di scivolare nel sentimentalismo. Da registrare la buona prova generale di tutto il cast, in cui trovano spazio quasi tutti gli interpreti più popolari dell’attuale panorama napoletano, così come di quello passato: Toni Servillo, attore-feticcio e figura quasi paterna per Sorrentino (che infatti gli offre il ruolo di Saverio Schisa, genitore di Fabietto), la bravissima Teresa Saponangelo, nel ruolo della madre, Massimiliano Gallo, Lusia Ranieri, Roberto De Francesco e Renato Carpentieri. “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male“, dichiarò una volta il pibe de oro – come ricorda la citazione riportata in esergo. Si può senz’altro dire la stessa cosa per questo nuovo film del Paolone nazionale.
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