Venezia 78, giorno 3. Pablo Larraín racconta la principessa Diana ma fallisce totalmente l’obiettivo

Una favola tratta da una tragedia vera“. Si apre con questa didascalia, Spencer, il nuovo film di Pablo Larraín, uno dei film più attesi e discussi del Concorso. La storia mette al centro la figura di Diana Spencer, la celebre principessa di Galles, sposa dell’erede al trono Carlo d’Inghilterra, madre di William e Henry, e morta tragicamente il 31 agosto di ventiquattro anni fa. La pellicola si concentra sulla crisi matrimoniale della coppia (Carlo ha già la sua relazione adulterina con Camilla), ed è ambientata nel giro di tre giorni, durante le festività natalizie. Il regista prova a immaginare e a raccontare l’aria che si respirava in un momento in cui tutti i tabloid parlavano di un’imminente separazione mentre la Corona tentava in tutti i modi di salvare le apparenze di fronte all’opinione pubblica, “il popolo che noi rappresentiamo”, come dirà Carlo in uno dei dialoghi del film.

Una favola al posto di una tragedia, dunque. La citazione sopra riportata appare fin da subito una chiara dichiarazione d’intenti con la quale si manifesta immediatamente la volontà di spogliare la narrazione di qualunque velleità storica o più semplicemente cronachistica. Fin dal lungo incipit, persino esageratamente esplicito sebbene non privo di efficacia (è sicuramente la parte più riuscita del film), Diana viene sorpresa a sbagliare strada mentre si trova al volante della sua automobile, senza autista. Questa circostanza la costringe a entrare in un fast-food per farsi indicare la giusta direzione. “Mi sono persa” – confessa la giovane principessa a un’inebetita locandiera, e solo l’intervento dello chef di corte, incontrato lungo il percorso, consentirà alla donna di arrivare all’appuntamento, sebbene dopo aver accumulato un considerevole ritardo.

Larraín fa entrare lo spettatore nella magione dei Reali, a cominciare dalla cucina, dove troneggia il sinistro avvertimento di non parlare perché “loro ascoltano”: siamo, dunque, in pieno territorio fascista, con un chiaro richiamo al famoso “Silenzio, il nemico ci ascolta” di mussoliniana memoria. La macchina da presa si muove sinuosamente all’interno delle varie stanze in cui agisce la protagonista, in scena per la quasi totalità del film, interpretata da una Kristen Stewart che non appare troppo a suo agio nel ruolo, nonostante lo sforzo di infondere al proprio inglese statunitense la dovuta intonazione britannica. Diana appare subito come un personaggio totalmente fuori posto: rimpiange la casa in cui ha vissuto da piccola, che sorge non troppo distante da lì, rifiuta di rispettare il protocollo (a partire dall’obbligo per tutti i residenti di sedere su una bilancia e pesarsi prima dei pasti), soffre di attacchi bulimici, cerca di imporre la propria cameriera al posto di quella che le viene offerta, preferisce scegliersi da sola i vestiti da indossare per ogni occasione, e che invece le vengono imposti da una serie di etichette che indicano l’abito e il colore più adatti per ciascuna circostanza.

Come appare abbastanza chiaro fin da subito, Diana rappresenta la fanciulla chiusa in trappola dentro un antico maniero, senza nessun principe azzurro che possa venire a liberarla, con l’aggiunta di un altro cliché del genere, quello del fantasma che infestata il luogo incantato, qui rappresentato dalla figura cinquecentesca di Anna Bolena, un’altra vittima delle macchinazioni e della spietatezza della Corona, uccisa dal marito fedifrago Enrico VIII. Se i taglio scelto per la narrazione è senza dubbio intrigante, c’è da dire purtroppo che il regista, mal servito da una sceneggiatura tutt’altro che efficace firmata da Steven Knight, non riesce a sviluppare a dovere il tema. Si assiste, infatti, alla ripetizione infinita di uno schema che, dopo la prima mezz’ora introduttiva, è incapace di aggiungere varietà e complessità agli eventi, come se tutto il problema della vita della principessa, all’ombra della Regina Madre e di suo figlio, fosse costituito dagli abiti da indossare, dal mancato rispetto degli orari e dalla chiusura o meno delle tende durante la permanenza nelle proprie stanze.

Se il precedente Jackie, incentrato sulla figura di Jacqueline Onassis, vedova di John Kennedy all’indomani della sparatoria di Dallas si presentava, pur con i suoi limiti, come un efficace compromesso tra le ambizioni autoriali di Larraín e le richieste hollywoodiane, qui la bilancia sembra pendere in favore di una certa spettacolarizzazione e nella ricerca insistita delle sequenze a effetto, peraltro poco riuscite, a scapito non solo dell’attendibilità della narrazione ma anche della complessità del tema trattato e dei personaggi rappresentati, i quali appaiono schiacciati e monodimensionali. Ed ecco quindi l’insistenza sui conati di vomito della principessa, o l’idea abbastanza trita di sovrapporre la figura del fantasma della Bolena a quella di Diana nello stile classico dei romanzi gotici (l‘horror è davvero fuori dalle corde del regista cileno), o inventare una fuga che, lungi dal far scivolare un evento tragico tra le braccia della favola, contribuisce invece a ridicolizzarlo. Per questo, anche per questo, Spencer rappresenta probabilmente il nadir nella carriera di un regista che, fin dagli esordi, ci aveva abituato a ben altri livelli, e che ora invece appare ingabbiato, disorientato, indeciso su quale strada imboccare, forse irretito come il suo personaggio dentro una matassa che non riesce più a districare.

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