Venezia 78, giorno 4. Di ‘Dune’ e di altre galassie, dell’immensità e del cielo e delle viscere della terra
Dune di Denis Villeneuve (Fuori Concorso): Dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. L’universo sterminato, con i suoi pianeti, e le profondità della terra, il kolossal hollywoodiano in grande stile e la massima economia stilistica e di mezzi. Insomma, l’attesissimo Dune di Denis Villeneuve e Il buco di Michelangelo Frammartino, due ottimi registi con due concezioni di cinema e due mondi produttivi agli antipodi. Villeneuve adatta il romanzo omerico di Frank Herbert ma, a differenza del precedente del 1984 diretto da David Lynch, si tratta questa volta di un segmento dello sterminato e profetico lavoro dello scrittore statunitense, al quale dovrebbe presto seguire il prequel Sisterhood, attualmente in fase di realizzazione. Se con il film precedente lo spettatore veniva introdotto alla vicenda dalla presenza di una magnetica Virginia Madsen, il Dune villeneuviano fa utilizzo di una più canonica voce fuori campo che descrive come si presenta il mondo nel 10191, con lo scontro tra gli Atreides, guidati dal giovane Paul, e gli Harkonnen, per il controllo della Spezia, situata sul pianeta Harrakis. Opera titanica e atemporale, precorritrice di molti temi, tra cui quello della lotta per l’approvvigionamento delle risorse vitali, il Dune di Herbert è anche un romanzo di formazione che narra la nascita di un leader, il giovane Paul, che deve prendere il posto dell’amato padre, duca Leto. Arrakis, in cui dimora la civiltà indigena dei Fremen, è il terreno di battaglia in cui si misurano le rispettive parti in causa, tra vermi giganti e panorami sabbiosi. L’adattamento di Villeneuve è fedele al romanzo di partenza e ricalca molte sequenze del predecessore lynchiano, soprattutto nei primi novanta minuti, per poi dilatare maggiormente gli eventi nell’ultima parte. Da questo punto di vista, l’operazione potrebbe sembrare forse superflua e fuori tempo massimo se non si considera che il film attuale (in uscita nelle sale italiane il 16 settembre) è solo una tessera di un mosaico più ampio ancora da costruire. Magniloquente e ambizioso, con un cast artistico e tecnico di grande pregio (tra cui spicca un Timothée Chalamet che regge bene il confronto con Kyle MacLachlan), Dune, al netto delle considerazioni che abbiamo riportato, è una macchina spettacolare e cinematografica che funziona a dovere e che richiede imprescindibilmente una visione in sala.
Voto: 7
Il buco di Michelangelo Frammartino: Terzo lungometraggio di Michelangelo Frammartino, Il buco è ambientato nell’Italia degli anni ’60, e mette a confronto le immagini del boom economico, simboleggiato dai servizi televisivi sull’inaugurazione del grattacielo Pirelli, e la rappresentazione di una Calabria rurale e montana, tra piccoli bar di paese e pastori la cui attività sembra richiamare l’immutabilità del tempo. Il film racconta, inoltre, l’impresa di un gruppo di speleologi piemontesi che, nel 1961, si spinsero nell’entroterra calabro tra Cerchiara e San Lorenzo Bellizzi per esplorare l’abisso del Bifurto, nel Parco del Pollino, fino ad arrivare alla profondità di -687 metri. Frammartino, autore de Il dono e dello splendido Le quattro volte, si affida a una narrazione quasi esclusivamente basata sulla potenza delle immagini e delle inquadrature, e su una vasta gamma di suoni e rumori attinti dal mondo naturale o semplicemente opera della voce umana. I campi lunghi, i richiami dei pastori, lo scorrere sotterraneo dell’acqua: tutto è narrato in sottrazione, sebbene vada sottolineata la grande complessità delle riprese all’interno della cavità sotterranea, che costituiscono una sorta di fuori campo assoluto. Entrare nelle viscere della terra significava, a quel tempo, andare in completa controtendenza rispetto a quanto stava avvenendo con il boom economico e le sue avveniristiche fughe verso l’alto che, di lì a pochi anni, avrebbero condotto alle grandi spedizioni lunari. Il buco è un’opera straordinaria e immersiva che, come il summenzionato Dune, richiede il buio della sala. Film per felici pochi, richiede spettatori attivi e lo sforzo di entrarvi dentro per osmosi, così da trarre, dal poco che vi è mostrato, il molto che vi è racchiuso. Fotografia di Renato Berta. Splendido.
Voto: 8
Mondocane di Antonello Celli (Settimana Internazionale della Critica): Film italiano selezionato per la manifestazione organizzata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, l’esordio di Celli è prodotto, tra gli altri, da Matteo Rovere che, con la sua Groenlandia sta cercando, con risultati altalenanti, di aprire la strada per un nuovo cinema nostrano di genere. In questo caso, si punta sul racconto apocalittico e distopico, ambientato in una Taranto del futuro, città fantasma divisa in due parti, una delle quali è il regno delle cosiddette Formiche, una banda criminale, composta in massima parte da ragazzini, capeggiata dal feroce Testacalda, intepretato da un monocorde Alessandro Borghi. Lo spunto di partenza è molto buono, e non mancano alcune sequenze abbastanza riuscite grazie alla spontaneità e alla bravura dei giovanissimi attori. Purtroppo, però, Mondocane non è supportato da una sceneggiatura all’altezza, dove molte cose sono lasciate all’arbitrio interpretativo dello spettatore, soprattutto per quanto concerne l’azione, con un’evidente mancanza di raccordi narrativi. Se, come detto, i piccoli interpreti (tra cui la “amica geniale” Ludovica Nasti) forniscono una prova convincente, Barbara Ronchi e Alessandro Borghi sono personaggi poco o male caratterizzati e, nel caso del secondo, appaiono imprigionati durante tutto il film nei medesimi gesti e nelle medesime movenze. Insomma, siamo ancora una volta dalle parti dell’occasione mancata.
Voto: 5,5
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