Vite parallele
di Eliana Petrizzi
Racconto un flusso di sensazioni ritrovate oggi, fissando a lungo il volto della Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci. Nei primi anni della mia infanzia, subito dopo i fiamminghi, fu Leonardo ad abitare stabilmente il mio immaginario, sia diurno che onirico. Nel salotto di casa c’erano mobili intarsiati color miele, pieni di ante e di cassetti, in cui mio padre teneva nascosti oggetti misteriosi ai miei occhi di bambina: conchiglie, farfalle, monete antiche, strani reperti fossili. Quando lui non c’era e io di nascosto andavo a rovistare, saliva un odore dal buio delle ante socchiuse, a metà tra quello delle giuggiole e del cipresso, che immediatamente mi trasportava in un’altra dimensione. Fu lì che mi sembrò di aver vissuto una vita precedente, a ridosso della fine del ‘400 e gli inizi del ‘500. Non mi spiegavo altrimenti quel senso di totale familiarità con ogni minimo dettaglio osservato nei dipinti di Leonardo, e del Rinascimento in generale.
Nella balsamica dolcezza dello sfumato dei volti, ritrovavo un tepore di persone che mi erano di certo appartenute. Riconoscevo distintamente quel profumo di giuggiole e di cipresso, ricordando il suono di un verginale che io stessa avevo suonato, indossando un abito simile a quello con cui è ritratta La Belle Ferronnière. E “l’inazzurimento dei lontani” (così Leonardo definiva la sua prospettiva aerea) – che in maniera così impalpabile descrive la natura nei suoi sfondi – mi ricordava la nostalgia di una condizione in cui mi vedevo sola in una dimora signorile, a vagare tra magnifiche stanze o affacciata da un terrazzo colonnato, da cui fissavo un paesaggio identico a quelli che si vedono nei dipinti di Raffaello.
Suggestioni infantili o reminiscenze di vite parallele? Per molti anni ho continuato ad avere queste misteriose sensazioni di déjà-vu che ancora oggi, quando mi trovo davanti a un dipinto fiammingo o a un capolavoro di Leonardo, o a certi dettagli del Rinascimento come monili, stanze, dipinti, gioielli, abiti, disegni, composizioni musicali, mi paralizzano in una condizione inspiegabile. Nasce da qui la mia devozione alla pittura di quell’epoca; da una sfera che a tutti appartiene e che solo l’Arte, nella sua straordinaria potenza sa portare alla luce, aprendo varchi che da distanze siderali ci ricordano chi siamo stati, e chi siamo oggi. La Classicità aveva messo a punto una rigorosa grammatica della tecnica, e insieme una visione del mondo unitaria, positiva e ideale. Le forme erano i simboli di una dimensione profonda e trascendente, potenti talismani per scoprire territori ignoti. Più che smaterializzare la realtà visibile, la pittura classica manifestava ciò che appartiene al dominio dell’Intelletto e dello Spirito.
Quando entro in un museo, quando mi trovo dinanzi a un capolavoro del passato remoto, mi sento al riparo come chi torna nella casa natale. C’è un senso nobile di famiglia che mi accoglie e mi ricompone, ricordandomi di essere già stata altrove nello spazio e nel tempo. L’anima del mondo per un istante si ferma. Felice fino alla commozione, esulto della mia piccolezza dinanzi a ciò che gli uomini sono stati capaci di creare quando hanno volto i propri talenti alla bellezza e al bene. Non so come spiegare il sentimento di totale rapimento che mi prende ogni volta, per esempio, davanti a un dipinto fiammingo. Ogni figura è una prosa cesellata con attenzione e pazienza; gli esseri viventi conservano lo sguardo fisso in un vuoto che va ben oltre il senso della rappresentazione. Corpi fragili avvolti da vesti sottili, altre volte accartocciati in drappi che somigliano a labirinti; il bruco morto accanto al vaso, la foglia secca caduta dal frutto, il bordo marcio che orla un petalo: la vanitas delle forme mi conforta con la sua franchezza.
I colori sono quelli della terra, della cenere e delle montagne che si preparano alla tempesta. La natura si arrende ai piedi del quadro, in una striscia di paesaggio schiacciata da cieli inquieti. Eppure, all’orizzonte c’è sempre una luce che apre alla vita. Nei piccoli formati della pittura medioevale, niente è lasciato al caso, nemmeno il piccolo trifoglio che un pittore moderno avrebbe evocato con una pennellata frettolosa. A un quadro fiammingo devi dare del “tu”, accostarti per leggere l’impasto degli oli e delle tempere, la direzione di pennellate finissime, la straordinaria minuzia di occhi, nasi e labbra dipinti in punta di piuma di beccaccia. La calma con cui si facevano le cose dice quanta fede quegli artisti avessero nella lentezza del tempo, nell’unità del tutto e nella sacralità del visibile, oggi persa in un horror vacui devoto solo al transitorio.
A ciascuno le sue predilezioni di epoche, di linguaggi e di stili. Ma un fatto è certo: l’arte è la vita dell’uomo unita al sentimento, e i sentimenti sono i catalizzatori delle risposte che hanno avviato tutte le culture umane; a loro si devono le invenzioni che hanno formato le civiltà, animando ogni nostra paura e tutte le nostre speranze. L’Arte educa alla comprensione di contenuti universali, invitando a perlustrare gli abissi. Genera domande che stimolano la nostra sensibilità emotiva e intellettuale. Aiuta ad attraversare il dolore mediante prese di consapevolezza che, da individuali, grazie al racconto simbolico delle forme si fanno di tutti. In ogni epoca della storia tutto è finito e molto è stato distrutto, ma l’Arte è rimasta: nelle sue molteplici forme è sempre stata preservata e trasmessa, perché ha saputo scavare, elevare e redimere, aprendo orizzonti di costruzione e di dialogo. Per tutto questo, io le ho dedicato e le dedico ogni giorno la mia vita.