Quel tal Maradona. Nel romanzo di Pecchinenda il nostro Diego, l’incredulità della felicità e l’impossibilità di uscire dagli anni Ottanta
di Mario Tirino
La scrittura di questo testo è stata preceduta da lunga telefonata con Elio Goka, direttore della rivista che lo ospita, con il quale abbiamo convenuto che – in qualsiasi modo lo si faccia – scrivere di Maradona, per chi lo ha amato, soprattutto se negli anni della propria giovinezza, significa inevitabilmente mettere a nudo sé stessi.
Allora, nel nostro “corpo a corpo” con il romanzo breve Maradona, l’impostore (Rogas, 2021) di Gianfranco Pecchinenda (di cui, su queste stesse colonne, abbiamo già commentato La faccia e Il paradiso degli interstizi), ci toccherà essere onesti, innanzitutto con noi stessi e poi con i lettori, su ciò che Maradona riesce ad attivare nei nostri vissuti e nelle nostre emozioni più profonde.
Il protagonista del romanzo breve di Pecchinenda è un soggetto che afferma di essere stato Maradona, un tal Maradona, impiegato per una lunga fase della sua esistenza come sosia del fuoriclasse argentino. Questo bizzarro personaggio ci viene presentato dallo psicoterapeuta al quale è affidato dal Tribunale, essendo accusato di omicidio in circostanze poco chiare.
Nella macchina narrativa allestita dallo scrittore e sociologo partenopeo, il lettore oscilla tra due poli, due istanze: da un lato, quella di questo tal Maradona, che lo costringe a fare i conti con un passato che, per quanto recente, ha già guadagnato i territori del mito, e dall’altro, quella del dottore, che – voce narrante e in qualche misura alter ego del lettore – predispone quest’ultimo all’ascolto.
Ma, di pagina in pagina, da qualunque versante della storia siamo invitati a collocarci, i racconti in cui ci imbattiamo sembrano avere il compito di rendere più sopportabile il peso di esistenze “monche”. È nelle storie che raccontiamo e in quelle che ci vengono raccontate – sembra dirci Pecchinenda – che noi proviamo a dare un senso a quell’incerto e in fondo insensato susseguirsi di eventi chiamato “vita”. Creare storie, arte demiurgica per eccellenza, è una pratica di sopravvivenza per gli scrittori e i cantastorie, i folli e i giocolieri e per quanti – con vari mezzi – custodiscono il segreto di fabbricare i miti: è esattamente dunque in questa magia che il nostro Pecchinenda colloca questo tal Maradona.
Siamo nei pressi di quella letteratura come regno delle ombre, degli scenari potenziali, delle ricerche effimere – una letteratura tanto cara a Jorge Luis Borges – in cui mito, religione e storia si confondono. Tuttavia, questo dominio della narrabilità assoluta ha un ambivalente rapporto con le durezze della vita: per un verso, se ne nutre e in qualche misura se ne fa beffe, riordinandolo in cangianti nebulose oniriche; per un altro, vi trova un insormontabile ostacolo.
Se la vita e la verità, entrambe fatte di parole, infatti, sono da considerarsi il fondamento di ogni finzione, il problema è che parole di vita e parole di verità non sono né simili, né sovrapponibili, poiché “quando uno racconta la verità, difficilmente viene creduto. Se invece uno ammette di aver raccontato una finzione, il minimo che gli possa capitare è di essere sospettato di voler camuffare una verità scomoda o pericolosa” (p. 15).
Di storie artefatte ma verosimili (almeno fino a quando qualcuno non le sbugiarda) ce ne sono a iosa: il terapeuta ricorda i casi di Eric Marco Batlle, protagonista del romanzo El impostor (2014) di Javier Cercas, di Binjamin Wilkomirski, autore di un’autobiografia (inventata) di bimbo ebreo durante gli orrori nazisti tra il 1939 e il 1948, e di Jean-Claude Romand, la cui tragica parabola è romanzata da Emmanuel Carrère ne L’avversario. Questi sono tre esempi tra i molti possibili nel vasto campo della letteratura del doppio, che vanta firme come quelle di Edgar Allan Poe, Franz Kafka (riferimento ricorrente nelle opere di Pecchinenda) e ancora Robert Stevenson ed Ernst Theodor Amadeus Hoffmann.
Alter ego dell’Autore e, in qualche modo, di quella quota non indifferente di lettori scettici e dubbiosi, il terapeuta si chiede allora se questo strano individuo, questa specie di Maradona non possa in qualche modo essere “altro che una versione ulteriore di tali modelli di impostura” (p. 32).
Nell’intreccio che ne segue, articolato intorno a sedute di psicoterapia sempre più appassionanti, questo tal Maradona rilascia a poco a poco spiragli di luce sul suo passato e soprattutto sulla sua “missione”. Nella sua versione – o meglio in una delle sue versioni – il vero nome di questo calciatore/sosia è Ricardo Montero, mediocre giocatore del Club Atletico Independiente di Neuquen, squadra argentina delle serie inferiori. Il suo unico patrimonio è questa somiglianza fisica e, in minima parte, tecnica con il Dio del calcio. Avvicinato da due emissari, che restano senza identità nel racconto, Montero è ingaggiato come sosia ufficiale di Maradona, in tutte le occasioni in cui era necessario risparmiare al Pibe de Oro uno sforzo da sovraesposizione. Montero però non “interpreta” Maradona, egli sente di “diventare” Maradona, giorno dopo giorno, assimilandone tic, gesti, portamento, camminata e persino gusti alimentari.
Non esploriamo oltre, della trama. Il romanzo di Pecchinenda, a nostro avviso, nella sua fulminea concentrazione, è una formidabile cornucopia di suggestioni, che a qualche critico consentirebbero di scovare echi di Pedro Calderón de la Barca, Juan Carlos Onetti, Luigi Pirandello, e forse anche del Dostoevskij de Il sosia e del Conrad de Il compagno segreto. Il romanzo meriterebbe sicuramente una lettura critica più approfondita, in relazione alle forme della letteratura europea e sudamericana degli ultimi due secoli. Ma è un compito che, evidentemente, eccede questa recensione.
Più modestamente, vorremmo suggerire due diverse traiettorie, egualmente interessanti e, in qualche misura, complementari, con cui quest’opera può essere “abitata” e penetrata.
La prima possibilità è abbandonarsi al gioco dei doppi, dei rimandi, delle citazioni interne all’opera dello scrittore partenopeo-venezuelano. Ricardo Montero è più dell’alter ego dell’Autore: protagonista dell’opera breve Essere Ricardo Montero (2011), fa capolino molto spesso nei suoi testi. Quello delle corrispondenze, è un gioco vertiginoso e gratificante, per chi ama la scrittura di Pecchinenda, ma soprattutto per chi ha una qualche familiarità con i fantasmi e le figure che popolano i suoi scritti precedenti. Ne è un esempio il leggendario Omar Amalfitano, anch’egli liminale agente del caos, sospeso tra vita e letteratura – o forse in un’aerea beatitudine tra l’una e l’altra.
Certamente, lo sfavillio degli specchi, dei doppi, dei riflessi e dei ritorni è la pura forma illusoria dietro cui l’esistenza di questo tal Maradona si porta dietro le disumane ferite che la vita – ogni vita – lascia al suo passaggio, esattamente com’è accaduto al vero Maradona. Lenire, curare, mentire, illudersi – se non sono sinonimi, sono àncore di salvataggio per il nostro Montero (e forse per chi legge, in fondo).
L’altra possibilità di entrare nei labirinti di Maradona, l’impostore è affrontare la sfida di concepire questo tal Maradona come una vera, piena e totale metafora del tifoso napoletano.
In effetti la malattia di questo Montero/Maradona è il sintomo di una patologia sociale più ampia e diffusa: l’impossibilità di uscire dal settennato maradoniano per una moltitudine di soggetti – specie quelli che, come dicevamo più sopra, sono stati adolescenti o ragazzi in quel periodo. Non si tratta di nostalgia, intesa – nel senso etimologico – quale desiderio di riassaporare un passato definitivamente perduto. Naturalmente, il culto maradoniano è intriso anche di nostalgia e malinconia, come testimoniano, nelle tante occasioni seguite alla morte del D10S, quei tifosi meno giovani, che del Pibe de Oro hanno ammirato le gesta dagli spalti del San Paolo e degli stadi d’Italia. Tuttavia, la patologia di cui osserviamo i sintomi è di diversa natura.
In questo senso, Montero ci pare cristallina incarnazione di quel terrore assoluto che ci prende quando pensiamo di percepire che, in fondo, la parabola di Diego – del nostro Maradona – sia stata il frutto di un’illusione, di una dolcissima e incatenante ipnosi, di un sogno collettivo. Un sogno dal quale ci si può risvegliare, sudati e atterriti, scoprendo d’esser vittima di una malìa, un altro sortilegio di Partenope, che, come mi ha detto con parole inoppugnabili Elio Goka, è per eccellenza “terra di maledizioni”. Nel suo destino di tragedie e sogni infranti, le imprese del Napoli di Maradona hanno costituito la prova incredibile che un corso di eventi, già segnato da miserie e lutti, poteva essere vòlto in successo, trionfo, primato. I napoletani sono stati invasi da una incontenibile felicità, dilapidata con la stessa intensa rapidità con cui era stata sperimentata.
La benedizione era arrivata, infine, e proveniva dai piedi di un Pelusa di Villa Fiorito. La fine cruenta e improvvisa della sua permanenza nel SSC Napoli ha generato la sorda paranoia che, di quella meravigliosa, folle, inarrivabile eroica avventura, non siano rimasti che pochi segni, ogni giorno più flebili. Non è così, certo, lo sappiamo, eppure Pecchinenda ha chirurgicamente intercettato – con sensibilità letteraria e fiuto sociologico – proprio questa malattia dello spirito partenopeo, quest’impossibilità a fare i conti con tanta, inusitata e inaccettabile bellezza. Tanto che per molti (di noi) è complesso uscire da quella bolla temporale, così accogliente, tra il 1984 e il 1991.