Fuga dalla guerra in Ucraina. La testimonianza di Anna e Jane

di Davide Speranza

Quando mi presento per la prima volta nel cortile della parrocchia di San Michele Arcangelo (ampio spazio ricavato negli anni recenti tra le periferie agricole di Nocera Superiore, in provincia di Salerno) ad accogliermi c’è una piccolina dai capelli biondi e gli occhi azzurri. Corre dietro la macchina, con le manine protese in avanti cerca di afferrare la carrozzeria. Parcheggio sotto un tendone. L’aria è calda, spinta da un venticello anomalo, originato da lontano. Appena spalanco la portiera, la bambina si fionda sulle mie gambe entrando nell’abitacolo. Vuole guidare, ride. Comincia ad afferrare il volante, parla una lingua antica e sconosciuta. Rido anche io, la lascio qualche secondo sul sedile mentre lei sterza. Avrà 3 anni. Eppure sull’orlo di quell’azzurro, dietro il sorriso timido avverto anche altro, una consapevolezza che mi fa rabbrividire, un’ombra che mi parla. Una valigia frettolosa. La fuga notturna. La mancanza di cibo e acqua. I giocattoli trasformati in incubo. Il viaggio rocambolesco, scomposto, il volto bianco della madre, il sorriso forzato che si scuce in qualcosa che non è vero. E poi una nuova terra, una lingua mai ascoltata, una casa con saloni in cui poter giocare.

Il contatto con la guerra russo-ucraina nasce così, da una bambina senza colpa, che già porta sulle spalle la storia dell’umanità strappata. L’idea è di intervistare alcune donne ucraine arrivate a Nocera Superiore, piccola città dell’Agro nocerino-sarnese, ospiti della parrocchia gestita da don Giuseppe Perano. Il progetto di accoglienza è coordinato dalla Caritas della diocesi Nocera Sarno (sotto la guida del vescovo monsignor Giuseppe Giudice). Don Peppe, con i suoi giovani collaboratori, ha trasformato in campus le camere e le aule della struttura. Grazie alla comunità nocerina, fa arrivare loro cibo, acqua, giochi.

Il giovane sacerdote è un uragano, cerca come può di far fronte all’imprevedibile. Una prima sorpresa è la presenza di una donna ucraina incinta, che dovrà partorire a giorni. Resto seduto in una saletta ad aspettare le mie interlocutrici. A tradurre sarà Katia Forino che ha origini ucraine ed è giunta in Italia da ragazzina. Conosce sei lingue e si occupa di sociale. L’intervista ad Anna e Jane non è facile. Le mie non sono domande di geopolitica. Non mi interessa. Se ne sono dette tante, in queste settimane corrotte dalla follia. A me interessa la polvere sul fondo del bicchiere, i fantasmi portati dentro. Voglio misurare la temperatura di uno squarcio, di una speranza, di un futuro.

Il dialogo con le due donne si ferma più volte. Le mie richieste sono semplici, in apparenza. Ma non risparmiano lacrime, rabbia, silenzi che mi battono nello stomaco. Più volte ho dovuto interrompere. Più volte Katia ha aspettato qualche secondo prima di tradurre, non è facile neanche per lei, sentir dire certe parole dal sangue del suo sangue, non è facile trascinare dall’ucraino all’italiano concetti di guerra e morte che esplodono nella sua terra d’origine. «Questa è troppo strong» dice a una mia domanda, me lo sussurra, tra l’impaccio e la delicatezza, poi però la traduce, Anna e Jane rispondono. Mi fanno vedere video, foto dei bombardamenti e dei bunker. Alla fine dell’intervista mi accorgo di avere l’interno della bocca salata, ma il mare è lontano circa 12 chilometri a sud, 20 a ovest. Qui non c’è mare, intendo nella Valle del Sarno.

Al di là dei Monti Lattari si distende la Costiera, e lì sì, lì c’è il Mediterraneo. Quanti chilometri sono da Kiev? Mentre aspetto nel piccolo refettorio, penso a Izet Sarajlić, tra i massimi poeti in lingua serbo-croata e dell’intero Novecento. Fondò Casa della Poesia a Baronissi insieme a Sergio Iagulli e Raffaella Marzano. Testimoniò con i suoi versi un altro orrore, l’assedio di Sarajevo durante la guerra di Bosnia ed Erzegovina. Non volle abbandonare la sua città, perse le sorelle e poi la moglie. Continuò a scrivere sotto i bombardamenti.

Alla fine dell’intervista, racconto questa cosa alle mie due interlocutrici e leggo loro una poesia. Il sale del mare ora riempie tutto l’ossigeno della stanza e per la prima volta immagino la puzza della polvere da sparo sui vestiti di queste donne. No, qui, nella saletta, proprio non c’è il mare.

Da dove viene?

Anna: Una città che si trova a 5 chilometri da Kiev.

Jane: Viviamo a pochi chilometri da Kiev.

Cosa è accaduto nel suo Paese, cosa ha visto?

Anna: Il 24 febbraio mattina, ci siamo svegliati grazie a una chiamata di mio marito, era iniziata la guerra. Non volevo crederci ma ho visto gli aerei nel cielo, ho sentito i bombardamenti. In quel momento mi trovavo da sola a casa, avevo il mio cane che si agitava, vedevamo i missili volare. Ho chiamato mio marito perché tornasse subito a casa.

Jane: Quando è scoppiata la guerra, mi ero svegliata per andare in bagno. Avevo il cellulare scaricato, stavo andando a prendere il caricabatterie in macchina. Ho sentito una esplosione, era una bomba caduta vicino casa mia. Sono rimasta a casa, non sapevo cosa fare, vedevo dalla finestra la fila di persone che iniziavano a scappare.

Chi ha lasciato nella sua terra?

Anna: Ho lasciato mio marito a Kiev, in questo momento si sta occupando del volontariato. Sono molto preoccupata, si deve muovere ovunque per prendere i prodotti, i canali umanitari sono pochi. Inoltre ci sono altri parenti, mio fratello è rimasto lì. Io sono l’unica ad essere riuscita a scappare.

Jane: Mio padre di 67 anni. Lì l’obbligo di rimanere è dai 18 ai 60 anni, per il servizio militare. Mio padre poteva venire con me, ma si è rifiutato categoricamente perché voleva morire per il suo paese. Vuole rimanere là perché i suoi nipoti e figli ritrovino un’Ucraina libera.

Quando avete lasciato la vostra Terra, cosa facevate?

Anna: Ho un figlio di 12 anni, Igor, e prima che nascesse ero un’infermiera.

Jane: Ero in società con mio marito, avevamo una società di costruzioni.

Cosa significa per voi lasciare il Paese?

Anna: Andare via per un viaggio è una cosa, ma sapere che i miei cari si trovano lì in una situazione di pericolo è altro ragionamento, un incubo difficile da vivere. Mi trovo qui perché mio marito me lo ha chiesto, per mettere in salvo il nostro bambino. Altrimenti, da infermiera, sarei rimasta lì per aiutare le persone. Ci trovavamo a 15 chilometri dal confine. Prima di attraversarlo, ci eravamo rifugiati in un bunker a casa nostra. Mio nonno era un liquidatore di Chernobyl, lavorava nel progetto di ripristino del territorio. Dopo aver vissuto quella tragica esperienza, aveva costruito una specie di bunker, per paura che potesse esserci un’altra esplosione nucleare. Non avrebbe mai immaginato di usarla per una guerra. Abbiamo accolto dentro molte persone, tra cui una mamma con la sua bambina di dieci giorni. Mentre ci nascondevamo di notte, era tutto buio, sono rimasta sopra con mio marito che imbracciava il fucile. Sentivamo passare i carri armati e volare gli aerei. Immaginate la paura, non sapevamo se fossero apparecchi ucraini o russi.

Jane: Prima che tutto questo accadesse sono stata in Italia, a Roma e Venezia, per motivi di svago. Ritornarci adesso, nonostante l’accoglienza sia ottima, sono consapevole sia una cosa ben diversa, una cosa grave e forte.

Cosa pensate di chi ha mosso guerra contro il vostro paese?

Anna: Nonostante sia una persona credente, preghiamo per la morte di quella persona. A farlo non sono solo gli ucraini, ma anche le madri russe, perché i loro figli sono carne da macello. La situazione è complicata. I giovani arruolati, nati nel 2000 o nel 2001, non sapevano proprio cosa andavano a fare, altri invece lo sapevano bene e hanno combinato quel che tutti sanno. Ci sono persone che sparano sui civili. Non gli interessa se siano donne, bambini, cani. In questo momento vogliono far passare il messaggio che siano gli ucraini a non creare i corridoi umanitari. Fanno comunicazione distorta per cercare appoggi alla Russia e far passare gli ucraini come se fossero i veri cattivi. C’è una propaganda politica. I russi arrivano a proclamare che stanno realizzando una liberazione dell’Ucraina dai fascisti e nazisti. Non la chiamano guerra, ma operazione speciale di liberazione.

Jane: Sono una persona molto diplomatica. Qualsiasi tipo di conflitto o discussione credo si debba risolvere in maniera civile, parlandone. Ma se avessi questa persona davanti, la mangerei viva, staccandogli la carne pezzo dopo pezzo in modo che soffra.

Come siete riuscite a venire qui?

Anna: Dovevamo fare la valigia in fretta. La nostra fortuna è stata la conoscenza della famiglia Esposito. Mio marito, quando era piccolo, giocava a calcio e all’epoca è stato ospitato da questa famiglia. Siamo rimasti in contatto per tutti questi anni. Così ci hanno aiutato a venire qui.

Jane: Dopo la prima notte nel bunker, ci siamo resi conto che non potevamo rimanere. Siamo andati a 400 chilometri da Kiev. Dobbiamo calcolare il fatto che da lì ci volevano circa 12 ore di viaggio, c’era il pericolo che la macchina venisse colpita da qualche ordigno. Poi siamo arrivati a Leopoli. Insomma non volevamo andar via dalla nostra terra e abbiamo fatto un lungo giro per decidere. Ci trovavamo al confine tra Polonia e Ucraina, così lo abbiamo passato. Abbiamo impiegato tre giorni per andarcene.

Quali sono le cose belle che amate del vostro Paese?

Anna: Tutto

Jane: Tutto. È la nostra patria, la mia terra. Nonostante viaggi molto, dopo tutti questi giorni sento la mancanza di ogni cosa, del mio lavoro, dei miei cari, della mia casa.

Come passate i vostri giorni in Italia?

Anna: Stiamo tranquille ora. Ma la prima sera che abbiamo sentito i fuochi artificiali o il rumore di un elicottero ci è tornata la paura. È stato un caos. Ci rendiamo conto che siamo traumatizzate, veniamo dal cuore della guerra. La cosa principale è trovare una specie di impiego, di lavoro. Mio marito si occupa di volontariato, anche i parenti di Jane. Vorremmo inviare dei soldi ai nostri familiari, aiutarli economicamente. Hanno perso tutto. Non arrivano molti aiuti economici, ma aiuti umanitari, beni di prima necessità. Mio fratello è stato già nel Donbass. Mia suocera è malata oncologica e ha bisogno di soldi per comprare medicinali che in questo momento non si trovano in Ucraina.

Jane: Ringraziamo per l’accoglienza don Giuseppe e i ragazzi che cercano di supportarci, di rallegrarci. Accendono la musica facendoci ballare. Provano a farci dimenticare gli orrori. Ma nonostante lo sforzo, anche se ti svaghi per 5 minuti, il pensiero va sempre lì. Qui abbiamo un’accoglienza completa, anche una sala per praticare lo sport. Vogliamo studiare la lingua italiana e parlare con le persone del posto per farci capire.

Cosa vi aspettate nel presente e nel futuro?

Anna: Nel nostro futuro l’unica cosa che possiamo volere è il termine del conflitto. Ci speriamo ogni giorno.

Jane: Chiamo mio padre e lui si preoccupa molto, ha paura che torneremo a casa. Li contattiamo in continuazione per capire se le cose siano più tranquille. L’Ucraina è piccola rispetto alla Russia, sia per numero di abitanti, sia per l’esercito. Abbiamo paura che vogliano cancellare il nostro Paese lanciando una bomba nucleare. Adesso mettono le mine in strada mentre le persone camminano, non fanno togliere neanche i cadaveri dalle strade.

Cosa significa per voi Resistenza?

Anna: Nonostante l’Ucraina sia piccola, non vuol dire che la gente si arrenderà e smetterà di difenderla. Siamo immensamente grati alle persone che stanno combattendo, soprattutto il presidente Zelenski, che prima veniva criticato per essere un ex comico, gli stessi russi lo definiscono un clown e lo prendono in giro. Ma il nostro presidente sta dando alla sua popolazione supporto emotivo e psicologico. Ogni volta parla con il cuore, con l’emozione.

Jane: Il sindaco di Kiev e suo fratello sono ex lottatori e campioni di boxe. Oggi si sono arruolati per difendere la città. Il nostro presidente si trova a Kiev e combatte con il popolo. Dall’altra parte c’è una persona vestita bene, con camicia e giacca, pieno di sé ma nascosto dentro un bunker. Non va neanche agli incontri. Ecco, questo vuol dire Resistenza per noi ucraini. Quando è iniziato il conflitto pensavano di chiamare la gente per la leva, ma non ce n’è stato bisogno, tutti si sono proposti per difendere la propria terra.

Anni fa la terra balcanica fu scossa dalla guerra di Bosnia e dall’assedio di Sarajevo. C’è una poesia del poeta Izet Sarajlić, in cui si legge: «Quei due abbracciati sulla riva del Reno a Gotthlieben/ potevamo essere anche tu ed io/ ma noi due non passeggeremo mai più/ su nessuna riva abbracciati./ Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia». Con chi vorrebbe passeggiare oggi dentro quella poesia?

Anna: Molto molto difficile rispondere a questa domanda. Ci troviamo in Italia e abbiamo lasciato i nostri cari. E ci sono altre persone come noi. Tutto quello che sentiamo adesso è tantissimo dolore, tantissima sofferenza.

Jane: Questa poesia l’ha scritta perché voleva passeggiare con la moglie sulla riva di un fiume. Ma attualmente noi telefoniamo a casa e preghiamo che i nostri cari rispondano. La nostra vita, anche quando finirà tutto questo, non sarà uguale. La psiche dei bambini è stata distrutta. Anche quando torneranno, vedranno distrutto il loro paese. Pensiamo alle persone che hanno perso la casa, che hanno fatto sacrifici in paesi stranieri per poi desiderare di tornare nella città natale, e adesso non hanno più nulla. Quando mio padre esce di giorno, ci sono missili che cadono, e lui prega che non sia casa sua, prega che abbia un luogo in cui tornare. La casa dei nostri vicini è stata colpita. In questi giorni mentre parlavamo al telefono abbiamo sentito l’esplosione di una bomba caduta a un paio di chilometri da casa nostra. Adesso controlliamo quante case sono rimaste intatte.  

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