Erranti radici – Liturgia dell’altrove: ad Avellino la nuova mostra di Franco Cipriano
Erranti radici – Liturgia dell’altrove è mostra-evento di Franco Cipriano, che si inaugura sabato 7 maggio 2022 alle ore 18.00, presso gli spazi del Museo Irpino – Complesso monumentale ex Carcere Borbonico di Avellino. Proposta da Montoro Contemporanea e col patrocinio della Provincia di Avellino e del Comune di Montoro, la mostra gode della cura culturale del filosofo Ernesto Forcellino – autore anche del testo principale in catalogo – e della direzione artistica di Gerardo Fiore. In mostra, le opere dal 1992 ad oggi, “che articolano un pensiero dell’arte irriducibile a modalità di conformità stilistica o di cronaca artistica”.
Erranti radici è un titolo che assume l’emblema esplicito del doppio autoriale di Franco Cipriano. Quello dell’artista e quello dello scrittore. Due volti in relazione e in perpetua causa e soluzione di sé, in nome di quel “dissidio” custodito dall’azione artistica come “mistero visibile”, nel caso di Cipriano costantemente manifesto attraverso il dialogo con la sua frazione errante e tradotta in scrittura. Una simbiosi costante col pensiero filosofico e con l’erranza, appunto, autoriale.
“È l’approdo ultimo di un intenso percorso che, iniziato negli anni Ottanta, si approfondisce dal 1991, fino agli esiti recenti. Cipriano ha fatto della pittura una via aperta all’alterità del gesto ‘creativo’. Una ricerca che, nei suoi passaggi e variazioni, è stata fedele ad una idea dell’arte come “pensiero visibile”, opere dell’immagine che si fa paradossalmente immagine del suo svuotarsi. In opere di tracce, orme, segni materiati, in una topografia costruita su riflessi, emersioni e nascondimenti di frammenti iconici che nella loro presenza risuonano della controversia della rappresentazione, immagini-eco che manifestano assenze, soglie dell’impossibile sorte da una cancellazione che rivela invece di. Memoria di miti e metamorfosi nella quale il risvolto era l’immemorabile. Orme di un’impossibile rappresentazione eppure iscritte come estrema possibilità proprio di quella impossibilità.”
“La visione senza oggetto”, per dirla alla Roscioni, è il preambolo breve di un formulario fluido e incodificabile che non ammette e non impone divieti. Un apparente anonimato muove le direzioni imprevedibili di un movimento che si sposta nel tempo, ma senza storicizzarsi. Il totale sensoriale di Cipriano tende ad osservare l’invisibile. Paradosso che si legge dalla sua stessa definizione di “Narciso cieco”.
Come scrive proprio Ernesto Forcellino:
“È una storia che si deposita come cenere sulle forme (di qui il loro cromatismo ‘essenziale’), suggerendone il mistero, fino a ‘toccare’ quel punto d’indeterminazione dell’ordine cronologico capace di sconfinare, verrebbe da dire, in una ‘archeologia della temporalità’ nella stessa misura in cui lavora ad una archeologia dell’immagine, decostruita e ‘stratificata’.”
L’arte di Franco Cipriano regola in costanza di evoluzione e mutamento l’affondo tra l’idea dell’opera e gli elementi della materia. Il calcolo e lo stadio ingannano ogni possibilità di gerarchizzarne i ranghi. La luce e il tratto, la forma e la tela, l’esecuzione stessa, convocano finanche la struttura e il supporto. Come scrive Ilaria Tamburo in La forma del pensiero (Mistero chiaro – Biblioteca catafisica, 2017): “La realtà catafisica di Cipriano si traduce dunque in una sintassi che sfugge al rigorismo progettuale per compromettersi con l’accidentalità della pratica, con la casualità del gesto”.
Una fusione in plumbeo distende un velo disposto in fossile. Il primordiale è l’unica declinazione temporale possibile davanti alle opere di Cipriano. Diversamente, non è possibile attribuirgli consequenzialità o ordine alcuno. Come afferma Vincenzo Vitiello in Abyssus abyssum vocat, intorno a una personale tenutasi nel 2010 (Kataphysis, Franco Cipriano, Bruno Mansi Edizioni, 2010), che la prima impressione che si ha è l’assenza del tempo orizzontale, lineare, “del tempo definito dall’aritmetica successione del prima e del poi”. Quello delle opere di Cipriano è, così, definito “verticale, stratificato”. E sia ben chiaro che il suo primordiale non va inteso come principio, ma come fondamento interiore costantemente rivolto alla ricerca e alla fuga dall’origine, scongiurando, così ogni possibilità di fraintendimento da tentazioni idolatriche.
Un impianto rarefatto, con le sue forme su soglia, svela una regione indefinita in cui aleggia una veggenza interdetta, in cui lo spazio genera spazio. Non priva, questa, di una camera termica ad alta temperatura, sia pur in apparente fissione e in un ingannevole decadimento degli elementi. Giuseppe Limone, in una prosa dedicata proprio all’opera di Franco Cipriano (Cenere del cielo, Artlante, Napoli, 2001; in Franco Cipriano, Di Estrema memoria – Plectica, 2007), fa ricorso più volte alla parola ‘arsione’, fino all’espressione ‘conversione all’arsione’ per definire “il punto zero del mondo”. Ed è proprio Limone, nello stesso testo, a rievocare il doppio volto metaforizzato da Borges, in un intendimento ‘bifronte’ del reale, nel labirinto e deserto: “Sono andato nel deserto, ho preso un pugno di sabbia e, nel momento in cui lasciavo cadere la mano ho detto: sto modificando il deserto”.