Intervista a Vincenzo Romano: “Per me tutto è nato da un sogno. Da piccolo sono rimasto affascinato dalla tammorra.”
di Davide Speranza
Se vieni segnalato dalla Sovrintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio vorrà pur dire che sei diventato pezzo e sangue di una terra, qualcosa o qualcuno da salvaguardare, per promuoverne i sogni e preservarne il cammino identitario. Vincenzo Romano è quel pezzo da difendere, bandiera di una nazione ideale che la contemporaneità vorrebbe asfaltare di netto – la Tradizione – e alla quale lui, cantore pellegrino e prima tammorra per la Festa della Madonna delle Galline, sta apportando innovazioni, tessendo un dialogo tra passato e presente. 32 anni, musicista per istinto fin da bambino, impossessato dal ritmo della tammurriata e dall’amore devoto verso la statua mariana miracolosa che risiede a Pagani (piccola città nel cuore dell’Agro nocerino sarnese), Vincenzo è la nuova generazione di una serie di musici e menestrelli di un Sud misterioso e abissale sul piano antropologico.
L’artista paganese si inserisce in quel mondo studiato da accademici, artisti e cultori della materia – come Ernesto de Martino o Roberto De Simone – che affonda le radici nella elaborazione preistorica di rituali il cui proposito è sempre stato quello di scandire l’esistenza umana, assottigliandone le inquietudini, dando loro ritmo rigeneratore per affrontare le stagioni del tempo. Cos’è il ballo, il canto, la narrazione offerta al pubblico astante, se non un esorcizzare la morte, abbandonarsi agli istinti primigeni, chiudersi in totale pregheria e in richiesta di una fertilità che sgorghi dalla roccia, dalla terra o dai ventri? Allora, tutto questo è Vincenzo Romano. A battezzarlo (artisticamente) fu Franco Tiano, cantore fuori norma, voce dell’intera città, attore a fasi alterne in capolavori del teatro e del cinema come La cantata dei Pastori di De Simone, E la nave va di Federico Fellini, Il camorrista di Giuseppe Tornatore, e poi le collaborazioni con Eugenio Bennato, Aldo Giuffrè, la Nuova Compagnia di Canto Popolare insieme a Concetta e Peppe Barra: fu lui a rinnovare la Festa della Madonna delle galline, istituzionalizzando l’apparata dei toselli, gli antichi cortili addobbati a festa in onore della madre di Cristo, sulla cui statua si posano le colombe per niente intimorite, anzi fermamente devote anch’esse sul manto della Vergine.
Dall’esperienza umana e artistica con Tiano, Vincenzo Romano ne ha passati di concerti, feste, performance in mezza Italia e all’estero (tra cui Spagna e Francia), camei in film documentari come Pagani di Elisa Flaminia Inno, presentato tra Europa, Usa e Canada, alle Università La Sapienza e New York University. Nonostante l’età, ha alle spalle già diversi album e Cd (Mammeddio! Canti e ritmi di Primavere, Uhanema!, Natale in Armonia, Curri curri, mamma mia). Sensibile alle problematiche della sua terra, sta per fondare un centro culturale a Pagani, insieme alla compagna d’arte e di vita Laura Paolillo, dove creativi del Sud e non solo potranno presentare i loro lavori, pianificare progetti, organizzare laboratori, convegni e seminari. Entrambi si fanno trovare nel cuore antico di Pagani, nel piccolo tempio di via Torretta, diaframma di Cortimpiano che secoli fa era stato al centro delle attenzioni di duchi napoletani, saraceni e longobardi. Ancora una volta la tensione artistica e sociale di Romano rispecchia luoghi e paesaggi di perduta memoria e stratificata bellezza.
Partiamo con una riflessione sulla tradizione. Che rapporti hai con questa parola?
Per me tutto è nato da un sogno. Da piccolo sono rimasto affascinato dalla tammorra. Subito l’ho suonata, senza che nessuno mi avesse detto come. Mia nonna paterna era una cantante di tammorriate. Ho un rapporto viscerale con questa materia, sono cresciuto nei cortili, ho sempre cercato di conoscere, approfondire la nostra bella tradizione, perché a Pagani e nell’Agro si svolge la danza e il rituale. È nata così una mia ricerca musicale. Ho cercato, nel mio percorso, di liberarmi dalle mentalità che tendono a chiudere la cultura invece che allargarla. Sono una sorta di custode della tradizione, ma sempre provando a trasmetterla ai più giovani. In fondo sono un tradimento della tradizione stessa. È oggi il nostro mondo. Io non sono un contadino, non ho questo rapporto con la terra così forte, ma lo cerco attraverso il ritmo, la danza, la parola.
Qual è stato l’istante in cui hai preso in mano la tammorra e hai iniziato?
Le scuole elementari. Ho fatto un Pon sul brigantaggio, sulla tradizione del Sud Italia. Venne una maestra e mi disse che ero portato. Il mio primo canto fu “Brigante se more”. Poi non mi sono più fermato. Ho iniziato a suonare in villa comunale durante la festa della Madonna delle galline, ho comprato la mia prima tammorra. In maniera istintiva ho preso lo strumento e ho iniziato. Quindi l’incontro con Francesco Tiano, una illuminazione.
Mi racconti?
Sono andato a visitare il suo tosello. Avevo 10 anni. E lui in mezzo ai ragazzi, chiese chi volesse suonare, alzai la mano. Mi disse che ero bravo. Ho iniziato a frequentare il suo cortile. Franco aveva già più di 50 anni, io ero un ragazzino. Con lui ho fatto 10 anni incredibili. Per me è stato un maestro non perché mi indicasse una via, ma perché osservando lui capivo l’amore per la comunità, verso la tradizione, che anche lui ha contribuito a rinnovare. Ho scritto un brano in cui racconto lui, di Franco l’Africano re dei paganesi.
Cosa ha rappresentato Franco Tiano per questa terra?
È stato colui che ha traghettato la tradizione verso le nuove generazioni. Se non ci fosse stato, qui ci sarebbe solo cenere. Era l’epoca in c’erano alcuni gruppi di anziani come Gioacchino Moscariello e le “pacchiane”, Anna Bellini, Virginia Aiello, voci citate da Roberto De Simone nei Microsolchi. Però stiamo parlando di un periodo storico diverso, in cui era avvenuto un tradimento sociale. Le persone non si sentivano più legate alla tradizione e al mondo contadino. Era il nuovo mondo, l’industria, i palazzi. Le persone si sono allontanate dai cortili. La festa della madonna era diventata una festa di quartiere. Tiano l’ha ripresa in mano e il popolo è diventato cosciente di questa cultura, vi si è riconosciuto.
Tu sei visto come l’erede di una tradizione pesante, che porti verso nuovi lidi.
In realtà a Pagani negli ultimi vent’anni c’è stato un buon fermento di giovani appassionati che si sentono legati a questo culto, a questa festa, al senso di comunità. È vero che qui ci sono tanti problemi, ma anche tante cose belle. Nel giorno della festa, in quel mese, ci si riconosce come comunità e questa è una cosa straordinaria. In un mondo digitale che corre, dove tutti sono concentrati su se stessi, è quasi un miracolo che accade.
Se spiegassi a un profano il mondo della tammorra e della sua musica ancestrale?
La tammorra è uno strumento che nasce dal setaccio, serviva per il grano, dunque uno strumento di purificazione che si trasforma in uno strumento musicale, una trasformazione naturale, legata al mondo contadino. Il tamburo serviva a scandire il tempo del lavoro, coma danza di libertà, di corteggiamento. La stessa tammurriata è un fenomeno di libertà. Una danza che rappresenta la vita quotidiana. La vita intera. Una sorta di incontro, conoscenza, conquista, corteggiamento, uno strumento che è terra e cielo. Ci lega alla terra e contemporaneamente ci porta in una dimensione alta. Viene accompagnata da castagnette, triccheballache, putipù, si crea una sorta di orchestra. Ma il tamburo ha la forza di legarti alla terra e di portarti via. Si crea un rituale, vai in trance, dimentichi chi sei e da dove vieni. Oggi è anche un modo sociale per stare insieme. Molti studiosi parlano di danze che venivano create in questo territorio, Pagus, il pago, un villaggio ai piedi dei monti Lattari. Danze che poi sono passate dal mondo antico al mondo cristiano, legandosi al culto mariano. I nostri canti sono sempre rivolti alla madonna, alla donna, alla bellezza. Ma ci sono anche canti a sfottò, il canto a figliola, preghiere alla madonna. C’è tanto di spiritualità e fede. Sacro e profano non si possono distinguere. Non c’è differenza. Sono stato uno dei primi a ricreare di nuovo questo legame tra il popolo e luoghi sacri, un sentimento semplice con tamburo e voce.
Si parla di identità. Perché la festa è un sistema identitario di una comunità?
Il percorso delle sette madonne campane è importantissimo. La Madonna delle galline è la terza festa ma è come se fosse la prima, perché si festeggia in maniera esplosiva. Legata alla settimana dopo Pasqua, nel solstizio di primavera, è una festa della rinascita, dove anche la natura ci manifesta la trasformazione. È un momento di luce, che si esprime attraverso un insieme di emozioni e di suggestioni, di passioni. Chi viene da fuori sente questo, sente che c’è un fermento, una energia viva. Credo che negli ultimi anni, quello che è stato il valore aggiunto ancora una volta sono i giovani da tutto il mondo. Pagani diventa un portale, e tutto grazie alla tammurriata, una delle forme d’arte più semplici.
La tua musica rispecchia queste emozioni. Come la si può definire?
Sono stato fortunato perché ho incontrato tante anime che mi hanno illuminato, mi hanno dato stimoli nuovi. L’universo è in ascolto, le cose stanno nell’aria. Ho iniziato nel 2010 con Gerardo Sinatore, uno scrittore, ricercatore che si è dedicato al fenomeno della festa. Con lui è nato un sodalizio d’arte, mi osservava e scriveva brani e testi su di me. Nel tempo ho cercato di usare il linguaggio che conoscevo, quello della strada, dei cortili, osservando i musicisti suonatori. Da lì ho messo insieme tutti questi elementi. Mi dissi di voler rinnovare questo mondo. Nella musica che faccio c’è sempre il richiamo al linguaggio della tradizione, ma ho provato a staccarmene. La matrice del Sud Italia è la stessa, il mondo greco latino, quello dell’Asia Minore, culture lontane e antiche, il mondo arabo, bizantino. Ho studiato i linguaggi del tamburo in maniera trasversale, non solo la tammurriata, ma anche i ritmi in Oriente. Con Laura Paolillo, la mia compagna, abbiamo cercato di scoprire il codice dei diversi suoni e ritmi. Prima la musica serviva a raccontarti delle cose, a darti stati d’animo. Nel primo lavoro con Gerardo, “Mammeddio!”, si fa un percorso nella musica sacra, immaginando questo mondo antico libero dai dogmi delle religioni, nella libertà assoluta dell’espressione dell’uomo. Ho cercato di raggiungere l’essenza di questa musica. La contaminazione l’ho impressa meglio nel lavoro di “Uhanema!!, dove ho usato il blues, il rock, il rap.
Hai destato curiosità anche in Giovanni Allevi che ha cercato un dialogo con te. Come è avvenuto l’incontro?
Per me è stato un onore immenso parlare con lui. Con il suo concerto “Allevi in the Jungle” girava in tutta Italia, ricercando le forme d’arte autentiche. Io mi sono iscritto a questo concorso ed è stato molto bello collaborarci. Ci siamo visti a Salerno, al Castello Arechi. È rimasto affascinato dalla nostra cultura, dalla nostra terra. Ha iniziato a danzare e ballare, sotto la musica del tamburo. È una persona di una sensibilità unica.
I tuoi lavori. Quali sono le tappe che hanno scandito il tuo percorso dal 2010 ad oggi?
Ho scritto diversi testi e brani. Poi Sinatore è un oceano di idee. Mi portò un fascicolo, un libro pieno di scritti. Il primo brano si chiama Mammeddio, che vuole raccontare il mondo antico e il mondo moderno, dalla grande madre, da Cibele, Astarte, a Maria. C’è un brano con una delle prime preghiere per la Madonna del Carmelo, “Flos Carmeli”, fiore del Carmelo; poi è stato importante il mio arrangiamento al “Curri curri mamma mia” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Abbiamo realizzato ballate, collaborazioni, piccole produzioni di brani legati alla festa, come “Inno” dedicato a Franco Tiano. Nel 2016 nasce il progetto Uhanema!, un pellegrinaggio del mondo antico nel presente. Ho sempre voluto portare quel mondo nell’oggi, attraverso il linguaggio delle contaminazioni. C’è chitarra, chitarra battente, organetto, flauti, fisarmonica. Mi è particolarmente caro un brano che ho dedicato al tamburo “Stunat vò sunà”, che è anche il simbolo di quel che grazie al tamburo sono riuscito a realizzare, una visione di legalità, il sogno di scappare grazie alla musica e di non cadere in certe costrizioni sociali, problemi dentro cui da ragazzi si può incappare nei nostri territori. Un tamburo mi ha salvato e mi ha accompagnato nel destino. C’è un brano in italiano, “E adesso danzi”, che ho presentato nel 2019 a Musicultura. Su 5mila iscritti fui selezionato ed era già una grande soddisfazione, poi l’esibizione live la vinsi io. Non posso dimenticare l’esperienza con la regista del film “Pagani”, con cui girammo l’Europa e sono nati tanti rapporti nazionali ed europei.
Com’è andata all’estero?
Ricordo bene l’incontro a Marsiglia, al Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo, al consolato italiano. E ancora il centro Pompidou di Parigi. Con i francesi è stato qualcosa di particolare. Suoniamo spesso in Borgogna, a Lille, nella capitale francese. Vengono loro qui a Pagani. Si è creato un sodalizio, grazie ai nostri amici Tullia Conte e Mattia Doto, due cilentani che vivono a Parigi e si occupano di danze tradizionali del Sud. Con loro è nato questo ponte culturale con il pubblico d’oltralpe. È qualcosa di molto viscerale, che va oltre il linguaggio e la parola. È la musica come linguaggio universale. Lì non capiscono il nostro dialetto eppure le persone piangevano, la musica popolare ha un significato profondo e curativo.
Quali sono i testi cui sei legato e rappresentano la tua percezione musicale?
La musica devozionale sacra. Lì c’è qualcosa di forte, vado in un altrove. C’è un brano cui sono legato, “Ave Mater Sanctissima”. Ma è una delle tante. Il mio percorso è come se fosse una trama tutta unita, un unico abbraccio con la musica. “Musica popolare naturale” è un brano che nasce a 18 anni e mi ha dato tante soddisfazioni, più moderno, dove c’è il tamburo ma anche la chitarra elettrica. Posso dire che il tamburo è un prolungamento del mio corpo.
Dove andrete prossimamente?
Quest’anno ritorneremo in Puglia con gli amici salentini. Poi in Campania, in Spagna. Adoriamo conoscere altre culture. Nel 2016 abbiamo fatto un viaggio nel camper in tutta l’Andalusia, mi sono sentito a casa. Ero diventato andaluso dopo una settimana. Lì è stato bello perché ogni giorno andavamo alla scoperta dei luoghi. Poi Sicilia, Sardegna, Ventotene, dove è nato un canto dedicato all’isola, in particolare all’isolotto di Santo Stefano dove si trova un carcere. In quella terra ho sentito qualcosa. Insieme a Gerardo è nato un testo che quando abbiamo presentato a Ventotene colpì la comunità locale. Si avvicinò una donna e ci disse che avevamo scritto la storia di Nerone, un personaggio dell’isola, che naturalmente non conoscevo. Ecco quando dico che le cose si trovano nell’aria e le percepisci forte. Con Laura, in Borgogna, siamo già stati altre volte, all’interno di una scuola che si occupa di musica barocca per ragazzi, orchestra di flauti e mandolino. Con l’associazione “SuDanzare”, presentiamo un viaggio sulle musiche popolari. Uno spettacolo voci e tamburo, con uso di canti a stesa, i canti a figliola, le ballate di corteggiamento, di sfida, di dispetto. Come vedi, all’interno di questo mondo ci sono tante sfumature. La tammurriata è uno dei linguaggi più ricchi e in fondo ha anticipato addirittura il rap e il freestyle.
Progetti futuri?
L’idea è di produrre un nuovo album, divulgare musica in piattaforma. Abbiamo la fortuna di avere una squadra di musicisti e amici, di mettere insieme anime diverse, realtà che fanno parte della nostra vita, rapporti umani e professionali. E poi c’è il progetto “Pagus”, villaggio delle arti che nasce con Laura, nel centro storico. Stiamo cercando di mettere in piedi questa realtà, per resistere qui a Pagani, mandare un messaggio a tutti coloro che hanno necessità di esprimersi, di incontrarsi, in modo che abbiano un punto di ritrovo per l’arte. Una locanda della cultura, dove presentare libri, costruire discussioni e convegni, progettare una rassegna musicale. Qui nel cuore della storia del territorio, ci riappropriamo della nostra cultura e sensibilizziamo i giovani e meno giovani.
L’ultima parola spetta a Laura, compagna, artista, destino e anima vitale nel percorso di Vincenzo:
Da quando ci siamo conosciuti abbiamo iniziato a collaborare. Io sono di Gragnano. Sono stata in giro, poi sono ritornata in Campania. Mi occupavo già di musica popolare. Nasco dalla lirica, diplomata al Santa Cecilia in canto lirico, con studi musicologici a Bologna. Ho girato 10 anni nei teatri lirici. Quando sono rientrata, ho avuto questo incontro con la tammorra, per caso, in un corso a Castellammare di Stabia. Già venivo da un background ritmico, suonavo la batteria in altri gruppi giovanili bolognesi. La tammorra poi mi ha stregata. Il cerchio si è chiuso quando ho conosciuto Vincenzo. Siamo due teste creative. Ci siamo messi a lavorare e la musica ci ha fatti innamorare. Porto avanti un progetto al femminile, nello specifico mi occupo di dare un ruolo alle donne nella tradizione. Spesso tutti i testi della tammurriata sono al maschile, invece il ruolo di chi suonava il tamburo in casa era ricoperto dalla donna. Metto insieme le voci femminili e portiamo avanti insieme questa missione.