Al Palazzo delle Esposizioni di Roma una mostra su Pier Paolo Pasolini “Ab joy”
“Poco più che corpo, o futuri
Vivi che vivrete al mio posto
al tepore di questi muri
altro amore in me non conosco
che l’Azzurro dei giorni scuri,
altro il tempo non è che Azzurro
dietro le spalle del morente,
un paesaggio soave e brullo,
un ossessionante sussurro,
fisica immagine sul Niente.”
Pier Paolo Pasolini, Tragiques – L’Usignolo della Chiesa Cattolica
Pier Paolo Pasolini secondo se stesso. La sua direzione poetica. Non nel senso di verso della linea letteraria, ma di disposizione interiore. Per un registro, quello della poesia, che la sua intelligenza e la sua sensibilità non hanno mai abbandonato. Nemmeno per un istante. La sua stessa divulgazione, spesso preda di fraintendimenti e dirottamenti di comodo, non dovrebbe sfuggire l’unica norma veramente accettabile e condivisibile della sua lettura. Avvicinarsi a Pasolini vuol dire avvicinarsi a chi ha sofferto – verrebbe da dire passionato – la poesia nella totalità creativa della sua letteratura.
In essa, potrebbe risultare superfluo specificarlo, è compresa ogni forma d’arte a cui e da cui il suo sguardo si è rivolto alla realtà e all’irrealtà. Cinema, poesia, narrativa, teatro, saggistica, critica, giornalismo. Tutto in un adoperato alienato e militante, cinico e dolcissimo, in costante relazione con il movimento di un’epoca e all’ombra di una stasi solo apparentemente fermento di un’ampia frazione di secolo che avrebbe dato vita a un tempo che nessuno sa quando potrà ritenersi compiuto rispetto alla sua generazione.
Chiedendo licenza di declinare questo scritto in prima persona solo per un istante, mi sono sempre soffermato sul perché qualcosa ha spinto e spinge chi lo ha amato e continua a farlo a leggere e osservare Pier Paolo Pasolini. E su quale sia il metodo, ammesso di poterne escogitarne uno, per tentare di riuscire a comprenderlo. Almeno fino a dove le resistenze e le remote dell’autore non sbarrino la strada a ogni illusorio esperimento. Nella complessa e vasta gamma di riflessione sul metodo possono di certo rientrare le ragioni e i propositi di una mostra. Ben al di là, si spera, dello scopo divulgativo.
All’ingresso della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, che resterà aperta fino al 26 febbraio 2023, Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO. Il corpo poetico – a cura di Giuseppe Garrera, Cesare Pietroiusti, Clara Tosi Pamphili e Olivier Saillard (co-curatore per la sezione dedicata ai costumi) il percorso espositivo è introdotto da un video di repertorio in cui il poeta accenna a uno dei suoi punti più intimi e oggetto d’indagine critica; nodo di sollecitazioni e azioni poetiche rappresentato dall’espressione “Ab joy”.
“Le cose vere, sincere, si dicono raramente, forse per caso in un momento d’ispirazione poetica […] Cioè io fin da ragazzo, fin dalla primissima poesia friulana di cui le dicevo fino all’ultima poesia in italiano che ho scritto, ho usato un’espressione della poesia provenzale che è “Ab-joy”… Cioè l’usignolo che canta ab-joy, per gioia. Ma “joy” in provenzale ha un senso particolare, di raptus poetico, di esaltazione, di ebrezza poetica. Ora questa espressione “Ab-joy” è l’espressione chiave di tutta la mia produzione”.
Pier Paolo Pasolini, Cinéastes de notre temps – Pasolini l’enragé, 1966
È forse già questa la rivelazione di fondo del percorso che affronta uno degli aspetti essenziali del “Tutto è santo“, esclamazione del centauro Chirone nel Medea di Pasolini destinata a diventare motto poetico dove felicità e dolore s’incontrano per fondere quel concetto di religiosità così centrale nella “passione” letteraria dell’autore bolognese.
L’Ab joy ha dentro di sé le norme dell’elezione all’inventio e alla dispositio, ma, al tempo stesso, la maledizione a una percezione acuta e dolorosa del vivere, a perpetrazione di quella tensione assoluta e travolta dell’esistenza e delle rappresentazioni creative, in un contro se stesso che è piena e totale accoglienza di sé. Pasolini ha dedicato gran parte della sua produzione a questo verso spesso trascurato e frainteso della sua polarità letteraria. E ne L’Usignolo della Chiesa Cattolica è possibile riscontrare un potente e profondo tracciato di questo intimo e struggente posizionamento.
La mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni è un’ampia esposizione di documenti sulla relazione di Pier Paolo Pasolini col mondo esterno, inizialmente inteso come luogo di esperienza e di interazione con le sperimentazioni dell’esistenza, condivise, talvolta, con altri artisti e intellettuali. Il Corpo poetico di Tutto è santo “presenta esclusivamente materiali originali: un’accurata selezione di oltre 700 pezzi che vanno a comporre un ritratto “corporeo” e inedito del grande intellettuale italiano: fotografie vintage, giornali dell’epoca, prime edizioni di libri, riviste sulle quali per la prima volta comparvero interviste, articoli, interventi, e poi dattiloscritti, ciclostilati, filmati, dischi, nastri, e oltre 100 costumi e abiti di scena. Un’esposizione che, in ogni sua parte, parla di amore per le cose e i corpi, nel nome della santità del reale.”
Le stanze dedicate ai documenti, agli articoli di quotidiani e riviste, fotografie, video, costumi di scena sulla vita e il lavoro di Pasolini prevedono piccole stazioni di meditazione in cui sono rappresentati i segni o gli aneddoti del percorso artistico e letterario del poeta. Su tutte, per suggestione, una stanza in cui viene riprodotta la proiezione del Vangelo secondo Matteo su una sedia su cui è una camicia bianca. La scena rievoca un episodio realmente accaduto. Il 31 maggio 1975, in occasione dell’inaugurazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, nell’atrio della Galleria, Pasolini lasciò che gli fosse proiettata sul torace, coperto, appunto, da una camicia bianca, la prima parte del suo Vangelo, prestandosi, così, a una suggestiva rappresentazione mediale caratterizzata da un’apparente intromissione che si rivelò un’intima fusione corporale con la sua opera. Fabio Mauri, che fu partecipe di quel momento, aveva già sperimentato un’azione simile con il regista Miklós Jancsó, sul quale, sempre nel 1975, era stato proiettato uno dei suoi film, per una performance intitolata Oscuramento.
“Autore ed opera formano una scultura di carne e di luce, una unità compatta. Dimostrano, con la forza di una ‘visione’, d’essere una cosa sola.”
Fabio Mauri
Secondo la testimonianza di Mauri, restituita anche attraverso una sua monografia, la sera in cui Pasolini si fece proiettare addosso il Vangelo secondo Matteo, poco a poco, rivelò una serie di risvolti di natura fotografica e suggestiva, determinando una costante e mutante relazione con alcuni dei presenti, e invitando la fotografia stessa a frequenti richiami da cui si costituì un grande impianto visivo che ne potenziava l’effetto.
Il corpo poetico dispone una serie di elementi che non possono essere soltanto considerati esposizione documentaristica, ma, per come ogni altro tributo a Pasolini, vanno pure intesi come invito a coglierne significati ancora vivi e pulsanti provenienti da impulsi e riflessioni che non sono il volto di una grande provocazione o, al tempo stesso, di un martirio, ma si rivolgono, a loro volta, a un drammatico dibattito di massa e a una confessione interiore.