Pièce Noire di Giuseppe Affinito: “La drammaturgia di Moscato la sento scorrere nelle vene”

di Davide Speranza

Se hai 28 anni, calchi il palcoscenico da quando sei praticamente in fasce e sei battezzato – in teatro – da Enzo Moscato, la predestinazione ti strizza l’occhio e per questo non puoi sbagliare. Giuseppe Affinito ha fegato da vendere. È riuscito a riportare sul palco il testo del suo mentore, Pièce Noire, con cui Moscato vinse il Premio Riccione per il teatro nel 1985. Salti temporali e passaggi generazionali. Eppure la drammaturgia del geniale artista napoletano è ancora viva, è sempre viva, palpita dentro i corpi ermafroditi dei protagonisti, nel ritmo della riscrittura di Affinito e nella rielaborazione interpretativa degli attori in scena (Luciano Dell’Aglio, Lauraluna Fanina, Domenico Ingenito, Anita Mosca, Rino Rivetti, Angela Dionisia Severino).

«La drammaturgia di Moscato la sento scorrere nelle vene, sono stato cresciuto da Enzo, sotto la sua egida teatrale. La sento come una componente quasi genetica – dice il regista Affinito – Confrontarmi con qualcosa di così personale è sicuramente un passaggio cruciale, una fase evolutiva, un rituale, un confronto con i propri archetipi. Enzo è stato tutto questo per me. Quando proposi di cominciare l’avventura attoriale e registica da questo testo, tutti erano spaventati. L’opera meno rappresentata di Moscato, che nella sua stessa composizione sembra irrappresentabile, molto barocca, stratificata, con più di dodici personaggi e due tempi corposi nella versione originale. La materia stessa con cui è intessuto il testo è rarefatta, ambigua. È entrato poi in gioco un elemento biografico».

Sebastiano Cautiero

Un elemento che parte da lontano e corre sul piano metaforico. Pièce Noire vede protagoniste le vicende di una “famiglia” tragicamente perduta nel baratro della perdizione. La Signora – proprietaria di locali notturni e spirito dal passato inquietante segnato da guerra, prostituzione e miseria – persegue una follia di perfezione, crescendo e “coltivando” tre creature. Cupidigia, Bramosia, Desiderio. Nomen omen. Gli appellativi sono specchio dei destini di ciascuno dei tre. Mentre i primi due sono ormai invischiati nella fanghiglia della corruzione, Desiderio viene allevato nel più vergineo dei modi, ma arriva la sera del suo debutto nel locale più prestigioso della Signora. È qui che prorompe il disvelamento del personaggio. C’è un momento in cui Desiderio cita il testo di Sylvia Plath (I’m vertical, but I would rather be horizontal) che richiama alla questione dell’essere e dell’esserci, della natura istintiva che esplode dentro anime in gabbia. “Lasciatemi essere” è il disvelamento della maschera di Desiderio. “Lasciate che io sia”.

Ecco che il dramma moscatiano si intreccia, oggi, con il lato autobiografico di Affinito. «Il debutto è una dinamica importante della pièce, debutto non inteso solo sul piano scenico, ma anche di vita. Desiderio è il principale protagonista che, dopo anni di formazione e educazione, è chiamato a confrontarsi con il suo modello di riferimento, mettendosi alla prova. Questo passaggio in qualche modo riportava a me. Il mio è stato un debutto quanto mai calzante, alla Sala Assoli nel maggio 2022. C’era una sovrapposizione simbolica tra me e Desiderio. Era inevitabile sentirmi coinvolto dentro questo personaggio che si ribella. Un qualcosa che si compie nella vita, il crollo degli idoli, lo scontro con il proprio eroe per riuscire ad essere se stesso. Ho alleggerito il testo. Nella prima rappresentazione del 2009, per la regia dello stesso Moscato, vi partecipai come Angelo della morte. Rispetto a quella versione che durava quasi 3 ore, qui si trattava di attivare una soluzione giovane. Siamo tutti attori sui 30 anni, era la prima volta che investivamo su uno spettacolo così importante, ho così immaginato una versione diversa, realizzando un adattamento drammaturgico che sfidasse il tabù per cui certi classici e testi storici non possono essere toccati da generazioni diverse. A me sembra di aver trattenuto il nucleo tematico principale, sebbene molti personaggi ho dovuto tagliarli».

Quella di Affinito è una tradizione teatrale che parte da territori remoti, legati a suo padre Claudio, tra i fondatori della compagnia di Enzo Moscato. Quando nasce il giovane Giuseppe, siamo negli anni Novanta, l’âge d’or della nuova drammaturgia partenopea. Moscato veniva dalle collaborazioni con Martone, Servillo. Nel dicembre 1995 il piccolo miracolo. «Enzo faceva le “Co’Stell’Azioni” alle scuderie di Palazzo reale a Napoli, mi prese in braccio e mi portò con sé – racconta Affinito – Da lì in poi non ci siamo mai più separati. Ho sempre pensato che lui avesse fatto tutto questo per tracciare un percorso. C’è una predestinazione in qualche modo. Lui mi ha lasciato una serie di tracce, di indizi. A lui devo moltissimo».

Sebastiano Cautiero

Il giovane discepolo studia a Napoli, Bologna, poi Parigi. Filosofia e Storia. E poi tanta scrittura: tra i regali più richiesti ci sono libri e quaderni. Solitudine dello scrivere, che va a contrapporsi all’idea di comunità teatrale che Affinito impara a costruire nel tempo. «Per me non è possibile immaginare il teatro senza una componente umana fortissima. Mi sono circondato di persone che ritengo essere alleati. Un teatro fondato sull’alleanza del cuore, dell’anima. Persone con cui creare un gruppo, il teatro è sempre un fatto collettivo, la bellezza di costruire un mondo assieme, entrare nella compagnia significa evitare la solitudine e la paura della morte».

È da questa energia collettiva che è rinata la messa in scena di Pièce Noire, fiaba nera, dove il linguaggio nuovo e multietnico di Moscato si mischia alla presenza vibrante dei corpi “tra-vestiti” in scena. E poi Napoli che non è Napoli, o meglio non è quella Napoli che tutti si aspetterebbero. La città velata sullo sfondo dinamico dell’opera è qualcosa di barocco e di notturno, la invade un profumo metropolitano ed europeo, quasi berlinese, che striscia per tutto il tempo. «Ci sono stati lunghi giorni di confronto – aggiunge ancora Affinito – Il maestro ci veniva a omaggiare della sua presenza. Veniva a parlarci di questo mondo strano. Un testo ricco di riferimenti teatrali, cinematografici, letterari. Enzo mi parlava di libri come “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares, “Cobra” di Severo Sarduy. La Napoli di Moscato non è quella di Eduardo e di Viviani. Da parte mia faccio un’operazione di avvicinamento ai miei tempi, citando Mulholland Drive di David Lynch. Mi piace essere molto visivo, pulp. Volevo avvicinarmi a un sentire tarantiniano. Ma anche ad Almodovar. Infatti per la locandina dello spettacolo abbiamo preso ispirazione dal film “Tacchi a spillo”. Ci siamo poi accostati a un certo ambiente, che ricordasse “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski. Enzo mi diceva di fare quello che ritenessi opportuno per questo mio debutto. In fondo, nell’idea della scena c’era già un tradimento. Non ho chiamato persone della compagnia “Enzo Moscato”. Questa è una nuova compagine, sono attori che vengono da altre storie, altri ambienti. Tradendo, rivendico la mia identità. Per me nasce una nuova vita e un nuovo percorso».

La scena costruita per questa nuova versione del dramma moscatiano vede la presenza (metateatrale) degli uccelli che la Signora tiene in gabbia. Altro elemento simbolico della condizione esistenziale in cui versano i tre ragazzi. «Entro in scena cantando “Palomma e notte” – dice Giuseppe – L’immagine di ali tarpate mi dava l’idea dei personaggi. Tutti sono esempio di una prigionia emotiva, sono tutti dei reclusi, esuli dell’anima. Cercano una libertà, una liberazione. C’è chi non ci crede più, chi invece ha questo forte anelito, la speranza e l’idea di riscatto, bere o affogare. In Desiderio c’è la voglia di emanciparsi. Li immaginavo chiusi dentro una gabbia, una prigione dorata, per questo motivo la scena è tutta giocata tra l’oro e il nero. È come stare in una fortezza, la camera, la casa della Signora, c’è un compromesso tremendo tra loro, la convenienza e il desiderio di scappare». Un messaggio potente e musicale ai giovani di questi tempi fermi in un’apparente velocità. Un grido contro il conformismo, ogni tipo di conformismo, e un allarme gridato, un urlo furioso di giovani ai giovani perché il mondo (dell’uomo) non vada immerso nella formalina, ma continui a rinnovarsi, ad esplorare riti e passaggi nella società contemporanea.

Immagine di copertina di Alessandro Scarano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!