La narrativa, la memoria. Riflessioni su un romanzo di Paolo Jedlowski
di Alfonso Amendola
“Intanto è avverbio ma anche congiunzione.
Intanto è il presente che non abiti da solo.
Intanto si alza il vento che ti porta via”.
Il percorso di studi e ricerche di Paolo Jedlowski (ordinario di Sociologia all’Università della Calabria) lo rintracciamo nello scavare nei set complessi della memoria, negli spaccati vorticosi della nostalgia, nelle teorie sociali, nel prodursi continuo della vita quotidiana e nelle trame del pensiero, nel molteplice del pensiero sociologico. Ma c’è una lineare costante che in qualche modo abita e caratterizza la tensione scientifica della sua densa produzione accademica (nutrita, anche, da importanti curatele di lavori di Peter Berger e George Simmel, giusto per citarne un paio, e senza dimenticare il costante “corpo a corpo” che Jedlowski ha da sempre tessuto con l’opera tutta di Walter Benjamin). Una lineare, dicevamo, che è la situazione letteraria. Uno spazio, questo della letteratura, che sovente torna nella sua scrittura, nelle trame delle ricerche, negli sguardi compositi delle sue riflessioni. E tutto questo, sublimato dallo spazio narrativo, lo troviamo in un libro. Il suo primo romanzo o racconto lungo: Intanto (Mesogea, Messina, 2020, pp. 154). Un libro che attraversa diversi generi: la saggistica, l’autobiografia e, appunto, la narrativa.
Ma procediamo con ordine: la saggistica sociologica (il lavoro specifico di Jedlowski) e in quest’opera i temi ci sono tutti: la famiglia, le generazioni, l’intercultura, l’invecchiamento. Poi l’autobiografia: i tanti riferimenti alla propria storia e al proprio vissuto (anche se l’autore giustamente precisa: “benché mi sia basato su materiali autobiografici, questo non è un’autobiografia” donandoci, quindi, uno spazio di scrittura ibrido). E infine il tutto trova sintesi in questa sua opera narrativa in grado di intercettare il proprio vissuto, la grande Storia, la quotidianità, un mai interrotto dialogare tra generazioni dentro uno spaccato epocale dagli anni Sessanta ad oggi. Un lavoro, insomma, che si muove tra due duplici sensibilità: quella intellettuale e quella emozionale.
Intanto, tra le altre cose è un avverbio che – come ha sottolineato Ercole Giap Parini – “ci dice che siamo parte di un tutto più grande, che siamo la maglia di una rete” e quindi che esistono tante stanze (tanti spazi reali o immaginari) a cui si può anche non accedere, ma intanto ci sono. Esistono, comunque.
Un’immediata indicazione che subito ci fa entrare nel romanzo principia già dalla copertina del libro. Due porte, due stanze chiuse alle quali fa da complemento una bicicletta. E la bicicletta è un modo per transitare, un viaggiar leggero ma, nello specifico della situazione letteraria, è soprattutto un “simbolo” che in maniera immediata e sorgiva lega lo scrittore a suo padre. Ed eccoci negli anni Sessanta con un padre a lavoro in bicicletta. E questo cammino su due ruote era cosa che in quegli anni non si faceva più perché segno “residuale” di un’Italia povera che tutti volevano lasciarsi alle spalle. E invece per il padre del nostro narratore è piccola, gioiosa, intima scelta di libertà. Ed esattamente come il padre, lo stesso Paolo Jedlowski tutt’ora ha la passione della bicicletta (ed essendo cresciuto a Milano è semplice, bello, naturale muoversi da ciclista in città).
E a parte l’elemento bicicletta sono tanti i salti di memoria e ricordo che Intanto sottolinea. Ma non dimentichiamo che Intanto non è una vera e propria autobiografia. Perché pur muovendosi nel territorio del “personale” dove l’autore parla di sé e del padre (rendendolo in questo modo un secondo protagonista della storia) questo libro ci restituisce sempre un alternare storie private e grande Storia, incontrando generazioni e luoghi dell’Italia fino ai giorni nostri. Un originale procedere narrativo che a partire dallo scavo di sé continuamente rincorre altre vite, altri spazi, luoghi, tempi, frammenti di vita dove lo stesso autore si è specchiato o inciampato o casualmente sfiorato. Un romanzo che è scavo nel profondo, nel proprio intimo, nell’intreccio più interno del privato. Eppure un lavoro corale, a tratti storico, aperto al mondo e che può toccare l’animo di tantissimi. Ed è proprio dentro questa struggente dicotomia che troviamo la centralità di quest’opera narrativa. Un lavoro dove tutto è raccontato con uno stile di profonda consapevolezza letteraria che ben sa miscelare il racconto teso ed avvincente con una prosa lieve, ironica e anche gioiosamente generazionale (ulteriore incisione a pastello per disegnare mondi, emozioni e geografie) con una scrittura che non teme di raccontare il buio della storia e dell’anima.
E allora ben vengano nuovi narratori come Paolo Jedlowski… adesso che i libri si confezionano su misura, ad uso e consumo di lettori ingenui o agguerriti che siano, a seconda dei casi, e le statistiche da consumo fast & furious permettono immediate ricognizioni sui grandi numeri dell’economia editoriale. Ben vengano autori come Jedlowski che al di qua dello stato delle cose, si distinguono immediatamente dai narratori-saggisti della domenica e dai santoni della narrazione facile. Perché Intanto perfettamente (e con garbo) in questo spaccato s’inserisce. Infatti, con questo suo primo lavoro strettamente letterario di Paolo Jedlowski ha tracciato un discorso tutto suo, validissimo, compatto, di una sobrietà ed eleganza da poter esser letto come un ventaglio spiegato che nella forma del narrativo intercetta l’autobiografia e il pamphlet ma resta narrazione! E nel suo procedere troviamo un andare rigoroso, ma colmo di sorridente, velata ironia sulle cose del mondo, lette alle volte con distacco ma mai non con disamore, amando in profondità l’essere delle cose belle ed eleganti, con animo di gentiluomo milanese innamorato della “sua” Calabria.
Inoltre, il tema della memoria, elemento potente nei libri di produzione accademica del prof. Jedlowski (come già evidenziato in apertura) in questo libro è trattato in maniera velata, sottile da non essere assolutamente veicolo di rimpianto, ma realtà artistica, dono di parole, immersione in un mondo (quello passato) di cui rimangono e rimarranno, comunque, per sempre le trame, le forme, le idee. E dove essenzialità e eleganza stilistica, in Jedlowski, fanno tutt’uno. Certo, Intanto è il diario più o meno plausibilmente autobiografico di una vita morale dove il tempo della quotidianità si liquefa in rivoli memoriali, in luci disincantate e saltuariamente crudeli. In Intanto c’è sempre la piacevolezza di una scrittura che si sposa agilmente con un linguaggio leggero ed asciutto, giustamente impertinente e personale, in un realismo che non nasconde il sogno anzi lo incorpora, e ne abbraccia i lembi in un unico lenzuolo, nella notte odorosa dello stile e spesso nello spazio della citazione-omaggio.
C’è come una promessa di poesia in Intanto. Ed è celata nelle esitazioni discorsive, nelle sincopi improvvise da flashback, nel raffinatissimo stilema di talune espressioni. La vitalità della prosa si stempera, talvolta, in un’immagine più densa, volutamente lenta: in un colore che poco alla volta si disvela o diluisce, eludendo la scienza dell’espressione. Importa a Jedlowski distinguerne le trame, smussare le prepotenze espansionistiche della letteratura. Ricreare l’oggetto amato per quello ch’esso è, conservarne l’immagine, il segno, l’ombra (e qui ritroviamo Pessoa, Proust e altri potenti “fantasmi” letterari). Intanto è farsi corpo del ricordo, bloccarlo. E continuare la scommessa nella narrazione. Intanto è immersione nella memoria: dunque rivisitazione di un passato (niente è più concreto del passato) che comunque si maschera sempre, a nostra insaputa perfino, perché è nota l’invincibile infedeltà del ricordare. E come l’acqua, la memoria conserva, sfuma, guadagna, si espropria, va e viene. Intanto è un racconto ritmato da una miscela pura e impura di eventi e impressioni.
Libro d’intensità e lievità, e dunque, per certi, versi imprendibile (come è giusto che sia). Jedlowski ci restituisce la sua idea di narrativa come esistenza densa e leggera. E questo suo romanzo ci dimostra come la letteratura (quel “tesoro di problemi fondamentali” per dirla con Bordieu) continui ad essere vertigine, ma anche zona di tregua e confitto, contaminazione, dono/oblio di sé, arte della presenza/assenza.
Bisogna leggere Intanto come un edificio stratificato pieno di vita e in continuo camminamento funambolico (quel camminare caro a Peter Sloterdijk) dentro il quale accade un’opera. Ecco perché risulta necessario questo prezioso esordio di Jedlowski. Perché nel suo procedere ci prospetta un’ulteriore deriva/approdo della scrittura letteraria ovvero quell’inspiegabile capacità di saper essere logica, scandaglio, “moltiplicazione”, regola, “dimora”, libertà, “rete di relazioni”, precipizio, desiderio e “memoria del futuro”.