Intervista a Franz Cerami su ‘Lumina’: “Segni contemporanei e segni antichi”
di Davide Speranza
«Quei due abbracciati sulla riva del Reno a Gottlieben
potevamo essere anche tu ed io,
ma noi due non passeggeremo mai più
su nessuna riva abbracciati.
Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia».
Sono i versi di uno dei più importanti poeti del secondo Novecento, il bosniaco Izet Sarajlić, dedicati alla moglie scomparsa dopo la guerra fratricida a Sarajevo. Un abbraccio possibile (ancora e soltanto) nell’arte, nella condivisione della grande cultura europea. Sarajlić continuò a scrivere sotto i bombardamenti. L’immaginazione disperata di qualcosa che somigli all’amore umano, alla pietas greca. Forse di questo abbiamo bisogno oggi? Sulla soglia di una guerra mondiale, che avanza implacabile dalle retrovie dei confini russo-europei – e con alle spalle una pandemia che ha sollecitato una necessaria pianificazione di ripresa economica internazionale – urge la presenza di abili tessitori geoculturali, capaci di sopraffini lavori sartoriali tra terre e visioni lontane.
Il futuro si gioca sulla tracciabilità di un segno che unisca. Lo sa bene l’artista napoletano Franz Cerami. Nominato ambasciatore del design italiano, ha fatto tappa nella multietnica Sarajevo, all’Accademia di Belle Arti. In occasione della Giornata del Design Italiano (con tema il light design), su sollecitazione dell’ambasciatore italiano Di Ruzza è stata organizzata l’installazione Lumina, uno dei fiori luminosi di Cerami, tatuaggi animati sul corpo degli organismi comunitari. Il suo lavoro restituisce armonia a una città martoriata. Alla fine dell’avventura uno dei cittadini accorsi a vedere l’opera dell’artista napoletano gli ha dedicato un messaggio in un italiano sbilenco ma toccante, su Instagram: «…nel mentre parlavi con l’immagine, parlavamo con le nostre vite riflettute in essa».
Qual è stata la sua reazione quando ha ricevuto la notizia della partenza per Sarajevo?
Mi ha emozionato molto, è stata una città consumata dalla tragedia, ma anche crocevia di popoli. L’idea di poter realizzare qualcosa lì era straordinaria. Ho proposto Lumina, la luce, e per me la luce ha una forza rigeneratrice, la luce delle feste, che rischiara le chiese e i palazzi. È anche la sicurezza, il contrario dell’oscurità. Nel mio studio ho una stampa comprata a Cuba tanti anni fa, ci sono nuvole che si aprono, c’è il sole che filtra tra queste nuvole e poi c’è un dio con il dito alzato e la scritta “Dio creò la luz”. Ecco le comunità si sono sempre affidate a immagini evocative su conoscenza e futuro. Lumina porta con sé questa forza, volevo farla vicino al fiume, altra grande forza rigeneratrice, l’acqua, l’idea che questa immagine si riflettesse in quel liquido, con la luna piena stupenda alle spalle dell’Accademia. Volevo raccontare la mia opera come un’onda, una dimensione fluida che unisce e trasporta. Perché Sarajevo è così, una città musulmana, cristiana, ci sono anche altre confessioni religiose, altre etnie. Sono arrivato lì con Flavio Urbinati, mio assistente e amico. Abbiamo oscurato le finestre con cartoni bianchi, Claudio del Proposto ha realizzato una bellissima colonna sonora, fatto le prove. La cosa funzionava e poi il giorno dell’installazione c’era una quantità di gente impressionante. Era un universo di persone armate di cellullari che scattavano foto e facevano video. Ma erano raccolti. C’era una dimensione di raccoglimento dentro e intorno alla luce. Questo è l’obiettivo, creare qualcosa di estatico, contemplativo. La giornata è stata lunga. In mattinata avevo tenuto un seminario con gli studenti. Ho incontrato tanti amici nuovi, ho pensato che questo lavoro fatto a Sarajevo dovesse essere raccontato in un film. Vorrei fare interviste, costruire un documentario breve. Far capire il percorso di un artista dentro questa incredibile città
Qui è necessario un primo stacco. L’intervista/narrazione la stiamo realizzando nello studio del noto visual artist, sommersi tra libri, stampe, fogliacci e taccuini, computer e colori. Cerami prende un suo book di disegni e inizia a sfogliarne le pagine, mentre racconta della sua esperienza a Sarajevo. Sembra che sul bordo stanco dei suoi occhi siano radunate ancora tutte quelle persone, mentre sparaflesciano foto a Lumina. Il fatto è questo. Carmelo Bene dal palco di un’indimenticabile puntata del “Maurizio Costanzo Show” urlava «Non bisogna produrre capolavori, bisogna essere dei capolavori». In quella sfacciata e sacrosanta verità, Bene ci diceva altro, al di là delle sue stesse declinazioni e interpretazioni personali. Superare l’atto creativo e farsi opera, farsi azione intracellulare dell’immaginario artistico, essere l’idea, essere il programma, il dubbio, il caos e la soluzione, essere il mosaicista e il suo braccio, l’idea del mosaicista e del suo braccio, uscire – impresa impossibile – fuori dalle parole e trasmutarsi (anche inconsapevolmente) in filo di cotone che cicatrizzi voragini della decadenza. Essere futuro. Franz Cerami – soprattutto in quella straordinaria inconsapevolezza, che è parte integrante di un progetto invece consapevole per la costruzione del sé artistico e del percorso annesso – rientra in questi nuovi paradigmi grazie al suo continuo peregrinare tra confini e periferie, città lontane per tradizione e vicine per lungimiranza. È un sarto del futuro, che tiene assieme tessuti del passato, del presente e del non ancora.
Dopo Sarajevo, è volato in Malesia, a Kuala Lumpur. Lì ha trovato una dimensione totalmente diversa. Come ha percepito questo spostamento geo-umano?
Un luogo diverso, città modernissima, grattacieli alti e impressionanti. Andavo lì per spiegare la mia opera, con me c’erano il direttore della Maserati, Roberto Cavalli, la Fincantieri, Augusta elicotteri. Insomma un contesto molto responsabilizzante davanti ai grandi colossi del made in Italy, con l’ambasciatore d’Italia Massimo Rustico. Anche qui la cosa interessante è stata la reazione del dopo, le persone mi chiedevano di costruire pezzi di installazione sulla città. Mi trovavo al 60esimo piano di un grattacielo e davanti a me avevo lo skyline della città, mi sentivo in una sorta di Blade Runner, andavo alla scoperta di posti assurdi e torri scintillanti che sembravano diamanti. A quel punto ho pensato di montare un pezzo di Pink City, altra mia opera. Ero in mezzo a questi grattacieli pazzeschi. E ho deciso di farla lì, dove ho trovato il futuro con tante sfumature diverse. Anche quello era un modo per costruire un ponte.
E non è finita qui. È tornato a Napoli per lavorare sulle mura della chiesa di Santa Caterina a Formiello.
Diciamo che è stata una non stop. Con la Regione Campania e Scabec ho lavorato per fare ancora Lumina, su questo magnifico edificio storico della nostra città. Ogni anno organizzano laboratori musicali con le bande della provincia di Napoli, permettendo loro di suonare dal vivo. Quest’anno hanno deciso di affidare il progetto ad un artista visivo che accompagnasse la musica prodotta da queste bande. La loro musica viene miscelata con la musica che produce per me Claudio del Proposto. È uscita una colonna sonora strepitosa. L’installazione rosa e verde su questa bellissima chiesa era sfolgorante. Napoli è una città di una bellezza senza fiato, con questo cupolone di Santa Caterina e dietro Piazza Garibaldi, i binari, il Vesuvio. Potevo giocare con il passato, con le forme del passato. Segni contemporanei e segni antichi. La cosa bella è l’aver mostrato ai ragazzi delle bande musicali come sia possibile costruire progetti con linguaggi contemporanei ma con dentro una forte eredità del passato.
Cosa la attrae di Lumina?
È una visione, prima di tutto. Sono sempre stato affascinato dalle chiese con le vetrate colorate. Quando il sole ci passa, ottieni riflessioni policromatiche che investono le superfici, come cristalli in movimento. Volevo ragionare su vecchie feste popolari e su queste bellissime vetrate, mischiando sacro e profano. Ricordavo le estati passate a Positano e Sorrento, da ragazzo, dove si montavano i pali dipinti di blu con decorazioni e lucette colorate, e poi giù al paese c’era la festa con i pupazzi, le rane, lo zucchero filato, il torrone, le giostre. Era una girandola di odori e sapori, ed eravamo tutti insieme, un grande momento di allegria e comunità. Ho associato questa luce a momenti di spiritualità, alle comunità che si ritrovano, quelle autoctone e quelle che arrivavano da fuori. Ecco Lumina è incontro tra le varie comunità. Ancora una volta. Ed è ciò che ho provato a fare a Napoli come a Sarajevo. Avevo studiato molto su quella città, lavorando con Iron Italiani che si occupa della realizzazione tecnica delle installazioni. Avevamo pianificato sopralluoghi virtuali, misurato le distanze. Da Napoli, avevo iniziato a lavorare sul taccuino, a fare schizzi e disegni, sono arrivato a fare un’onda, poi una seconda, una terza, un’onda che prendeva diverse forme, con le luci che rifrangono e rappresentano l’unione. A me piace pensare che sia possibile sempre costruire mondi complessi fatti di tanta luce e inclusivi. Il tema delle migrazioni rientra in tale concetto. L’accettazione dell’altro. Un’altra mia installazione, Migrant Sirens, parlava di questo. Di donne migranti e del loro coraggio per attraversare deserto e mare e costruire nuove comunità. Napoli è nata da Partenope che è la prima donna migrante della storia della letteratura e viaggia per fondare un nuovo popolo. Come Sarajevo, anche la mia terra è centro multietnico e incontro. L’arte me lo ricorda.
Altro stacco. Cerami ha iniziato a deviare il suo racconto. Cerca alcune foto sul suo portatile e poi anche video, per mostrarmi come sia stato in grado di costruire l’opera sia a Napoli, sia in Bosnia-Erzegovina. Fuori in strada c’è già aria di festa, per l’imminente scudetto del Napoli. Entra in camera anche Sol, la sua fedele cagnolina dal pelo bianco e marrone, spaventata da un pallone all’elio che galleggia nell’aria e va a sbattere contro il soffitto. Franz è divertito, ma assorto, sembra seguire la mappa di un percorso transcontinentale. A lui interessano i bordi liminali, gli estremi che osano nella trasgressiva condivisione. E infatti. Napoli, Sarajevo, Kuala Lampur, ancora Napoli, poi Milano. Gli ultimi mesi li ha passati così, a progettare visual art sulla pelle delle città, a performare e raccontare la sua visione del concetto di “luce”, diventando egli stesso luce e opera umana. La Farnesina ha da poco acquisito, all’interno della sua collezione di arte contemporanea, due opere della mostra Red Venus portata al Mann di Napoli, grazie alla collaborazione del direttore Paolo Giulierini e alla consulenza di Ludovico Solima.
Dall’Europa passerà al Brasile, altro immaginario potente per migranti e viaggiatori, altra cucitura tra comunità.
Sì, a San Paolo in Brasile sono stato chiamato a collaborare per una mia installazione di ritratti, stanno ristrutturando un pezzo di centro storico. Una cosa che mi colpisce di San Paolo e Kuala Lumpur è l’appetito furioso di prevedere il futuro, cioè prevenirlo e costruire, abbattere e costruire in un processo incessante. Forse c’è una terza via, tra il non abbattere il passato e costruire senza passato. Ed è unire insieme passato e futuro. Sono affascinato dalla diversità. Io vivo a Napoli, una città estremamente stratificata, dove trovi tutta la storia in pochi passi. Dove però si costruisce poca architettura contemporanea. Penso che il compito delle comunità sia sempre quello di realizzare futuri, al plurale. Amo l’idea di uno sviluppo di futuro armonico che contenga le opere del passato. Quando i popoli si fermano e restano ancorati al prima, si alzano muri e allora pezzi di società irrompono costruendo futuri che non sono armonici. Esempio ne sono le periferie, con le loro architetture mostruose fuori dalla città. O non sono illuminate o lo sono in maniera violenta. È necessario invece che quelle stesse architetture siano più inclusive. L’Italia deve guardare alle altre culture. Sapersi interfacciare con i tanti settori della propria comunità, mettendosi in ascolto e dialogo tra la propria storia millenaria e le infinite possibilità di futuro.