Incontro con Sergio Del Prete su ‘Sconosciuto in attesa di rinascita’
di Davide Speranza
L’uomo inizia a correre intorno a un rettangolo di luce. Respira affannosamente. Il pubblico assiste in silenzio, non può far nulla, né aiutarlo, né chiedergli, né prestargli un panno per asciugarsi la fronte come a un qualsiasi cristo che si appresti a salire il Golgota. Corre, ansima. Un tratto del percorso si spezza in un piccolo ingresso ricurvo, appare come l’entrata di un circo, l’occasione per dimostrare che i clown esistono e siamo noi. L’uomo si abbassa, striscia e arranca sul pavimento pur di guadagnarsi il centro della scena. Feto, neonato, adulto, esistente tragico e meraviglioso. Qualcuno è nato, ma sulle sue spalle grava già il peso di una tragedia, il collasso di un aborto, l’invisibilità di un passato che lo segnerà per sempre. È la performance che sta portando in giro per l’Italia l’attore e drammaturgo Sergio Del Prete. Sconosciuto in attesa di rinascita. Andata in scena ultimamente alla Sala Assoli di Napoli, dopo aver debuttato al Campania Teatro Festival ed essere stata acclamata al Milano Off Fringe Festival, l’opera di Del Prete si arricchisce dell’aiuto regia Raffaele Ausiello, delle musiche e degli impianti sonori di Francesco Santagata, con scene e disegno luci di Carmine De Mizio e i costumi di Rosario Martone. In questi giorni è possibile vedere l’attore napoletano su Prime Video, tra i protagonisti dell’ultima esilarante avventura firmata dal collettivo The Jackal, Pesci piccoli, prodotta con la Mad Entertainment.
Ma il primo amore resta il teatro. Quello che provoca lo spettatore e ti racconta una storia. Violenta, cupa, liberatoria, affonda le radici nel mito greco, negli abissi edipici che, arborescenti, si ramificano in ogni famiglia. Ed ecco allora che siete nati, avete condotto una parte della vostra esistenza in forma anonima e poi venite a sapere, all’improvviso, che prima di voi c’era stato un fratello. Avrebbe potuto esserci. Un bambino mai nato, non voluto, ricacciato fuori dal circo dell’umanità. Come cambierebbe la vostra esistenza? Peggio, come l’ha già cambiata (da sempre)? «La forza motrice della drammaturgia nasce dall’esigenza di mettere in scena l’uomo, una doppia faccia, la parte di un bambino che diventa un adulto non realizzato, emblema di incomunicabilità – racconta Sergio Del Prete, attore partenopeo che vanta un percorso di formazione importante sottolineato dalla presenza di nomi come Mimmo Borrelli, Francesco Saponaro, Giovanni Veronesi, Michele Monetta, Pupi Avati – Ma dall’altra parte incombe questo feto abortito. Un testo che ho iniziato a scrivere nel 2019, prima del covid e, poi, con la questione isolamento dovuto alla pandemia ha rinforzato un certo percorso. Nasceva da una personale esigenza rispetto al non mettersi più da parte. Del non addossarsi colpe nei confronti del mondo che ci circonda. Faccio parte di una generazione di mezzo, a cavallo tra quella dei nostri genitori che hanno vissuto anni d’oro e la nuovissima generazione che gode di una maggiore facilità di approccio rispetto al proprio vissuto. Io faccio parte degli anni Ottanta, quando cioè il mondo ha iniziato a viaggiare in balia di grandi cambiamenti economici, tecnologici, sociali. La nostra è una generazione confusa e confusionaria. Abbiamo vissuto colpe non nostre, che venivano da lontano. Questo volevo mettere su carta».
Gli anni Ottanta rappresentano un punto di svolta. È un fatto storico oggettivo. Un grande diaframma che ha dovuto digerire e metabolizzare gli scampoli del secolo breve, rimpastandoli in qualcosa di nuovo, complesso e forse inquietante. Con Del Prete siamo in Piazza Dante, all’ombra della statua dell’Alighiero nazionale. Sotto il gazebo in cui stiamo discorrendo c’è aria di festa. Un matrimonio, forse un compleanno, uno di quei momenti drammaticamente “statali” che devono fare da contrappunto alla nostra esistenza, trasgredire la verità e aggiungere un fotomontaggio di carne, pensieri, opere ed omissioni. Insomma, un momento azzeccato per parlare di autosabotaggi. Ma il chiasso è infernale. Ci spostiamo sulle panchine di pietra.
«Gli anni Ottanta, nell’immaginario comune rappresentano un punto di svolta – continua Del Prete – Muoiono alcune figure fondamentali. Nel teatro e a Napoli, Eduardo lascia spazio a nuove scritture come Moscato, Ruccello, Francesco Silvestri. Sono anche gli anni della possibilità economica. La società completa il processo di americanizzazione, c’è un concretizzarsi del capitalismo, bisogna produrre, crescere, altrimenti non sei nessuno. Gli anni Novanta sono anni di assestamento per prepararsi al nuovo millennio. Oggi viviamo i frutti di quel berlusconismo dove c’era tanto fumo negli occhi e oggi c’è rimasto solo il fumo, neanche gli occhi. Non riusciamo a guardare. In questo testo volevo estendere il disagio generazionale a qualcosa di universale. Mi interessava soprattutto catalogarlo non in un determinato luogo, per una determinata età, e neanche volevo dare un nome al protagonista. Egli in fondo è un simbolo, una metafora di argomenti e non di luoghi fisici. È la periferia, non solo fisica, ma mentale. Una periferia che ho ritrovato venendo dalla provincia, e poi in città. Un luogo da cui vogliamo scappare».
Quel luogo mentale acquista sulla scena la forma di un mini rettangolo, munito di arco illuminato a simboleggiare una vagina dentro cui si entra o si esce dal grembo materno. Piano piano il protagonista si spoglia e avvia il suo processo kafkiano. «Molto importante è stato il dialogo con tutte le maestranze. Siamo partiti dal testo che ho tenuto come fonte di pensiero. Letture su letture. Anche l’idea scenografica e delle luci rispecchia una mia visione teatrale, quella dell’essenzialità. Costruire un mondo in cui anche il pubblico possa far parte della struttura teatrale. Il mio obiettivo non è dare risposte, ma far nascere nuove domande, creare mondi immaginari partendo dalla fisicità. Così abbiamo realizzato questo rettangolo di luci a led, che simboleggiasse la difficoltà che abbiamo a superare cose molto semplici in apparenza. Una sorta di limbo. All’inizio dello spettacolo, all’esterno del rettangolo, sono ancora in giacca e cravatta, è la costrizione della periferia. Quindi vado a rifugiarmi in questo luogo che per me è un mondo, può essere un ventre materno, la stanza da letto, la mente. Volevo stimolare il pensiero dello spettatore, riprodurre angoli mentali, creare quelle luci di periferia dei bar, una luce acida».
Ma chi è questo figlio contemporaneo, mostro bicefalo Gregor Samsa/Josef K.? Una figura edipica che scopre il passato e per il quale l’unico modo per stabilire un contatto con la realtà è – per parafrasare Carmelo Bene (parlando di Kafka) – diventare pornografi di se stessi. Superare l’idea dell’idea, morendo in attesa di una rinascita. «La storia di quest’uomo-metafora di mezza età, inizia da quando era adolescente. Da una banale lite dei genitori viene a sapere che la madre ha abortito, un aborto che lo sconvolge a tal punto da fargli nascere delle domande, mette in discussione la propria esistenza. Sono nato perché mi avete voluto o sono nato per caso? Son nato solo perché non è nato l’altro? Esisto perché? Si chiede e domanda. Ma attenzione, la storia non è uno spettacolo sul tema dell’aborto. L’aborto è una metafora sul “sentirsi aborto”. Mi interessava trattare la questione non dal punto di vista femminile, perché non potrei capirlo, ma rispetto a chi riceve la notizia, chi è accanto alla donna che ha abortito. In questo caso, attraverso gli occhi di un adolescente».
Nulla di autobiografico, se non nel disegno dell’ambient e la suggestione delle sfumature drammaturgiche. «Vengo da Frattamaggiore, dalla provincia, ho vissuto certe dinamiche, nell’area Napoli Nord, Asse Mediano. Amianto, cemento e odore di asfalto. Volevo raccontare quell’elemento lì, la questione aborto riferita al sentirsi rifiutati. Un evento traumatico indipendentemente dalle scelte. Da premettere che sono pro aborto. Ma mi interessava dal punto di vita simbolico. È un pretesto per parlare di disagio, incomunicabilità familiare. L’uomo-metafora inizia il dialogo con questo fratello non nato, una voce interiore, prende a parlare con se stesso e troverà conforto tra le braccia di una prostituta».
Si affacciano due figure femminili. La madre, amata fortemente, pianta per quello che ha dovuto subire. E un’altra madre. Una massaggiatrice prostituta, unico diversivo nella periferia abbandonata. «Credo sia la figura dell’universo femminile più borderline, ai limiti della società. Non si sceglie di diventare prostituta, si è costretti in un modo o nell’altro. Ma volevo che nonostante la vita greve questa donna potesse trasmettere al protagonista una forza. Lei infatti, Marta, ha dei figli che sono una boccata d’aria, un miracolo. La donna gli insegna a guardare meglio la bellezza, che possiamo avere comunque un obiettivo. La questione è accettarsi fragili. È complicato, certo. Se non sei forte sei fatto fuori. Ma è normale essere fragili. Accettare quel che si è».
Sconosciuto in attesa di rinascita diventa un’opera catartica ogni volta, per l’attore e per il pubblico. Sulla scena si alternano elementi sinestetici di potenza visionaria ed evocativa. L’epica di un piccolo uomo racconta le possibilità della luce dentro il male. Anche questo è teatro. «Ho iniziato a occuparmi di questo mestiere da quando avevo 16 anni. Un laboratorio a scuola, in un istituto tecnico, l’allora Ragioneria di Frattamaggiore. Non c’erano grandi stimoli. Ora ne ho 36. Sono vent’anni di teatro. Nella mia incoscienza vedevo che questo mondo mi permetteva di essere qualcosa. Mi ha dato una identità, mi ha fatto capire quel che volevo essere e poi quel che sono. Mi interessano storie nascoste, che avvengono tra le quattro mura di casa. Paolo Sassanelli mi disse che finché ci sarà una storia da raccontare ad una persona che ascolta quello è teatro. Insomma tra tecnologie e altro, il teatro ancora oggi è l’arte più diversificata, tridimensionale, reale. È la grande novità che possiamo attraversare».