Intervista a Giuseppe Serroni: “A tutela dei beni culturali immateriali”
di Davide Speranza
«I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili». Così scriveva Pier Paolo Pasolini sulla città di Napoli. Sul set del Decameron, l’intellettuale e poeta friulano ebbe una lunga conversazione con Antonio Ghirelli. Ne uscì una splendida pagina di letteratura e sociologia, poi pubblicata all’interno di “La napoletanità” (Società editrice napoletana, Napoli, 1976, pp. 44).
Non aveva del tutto torto. Certo, sarebbe necessario stare attenti ai cliché e alle forzature folcloristiche, buone per saltimbanco che cospargono sale sul capo dei turisti o imbonitori imbottiti di corni rossi portafortuna. Ciò che resiste – nonostante la globalizzazione e nonostante le (de)generazioni – è il desiderio di preservare nella loro interezza gli oltre 3mila anni di storia che fanno di Napoli una delle polis più antiche e singolari al mondo. Servono presidi, più che ristoranti. Servono mediatori, più che cattivi amministratori. Servono cultura e strategia, più che marketing privo di qualsivoglia contestualizzazione.
Giuseppe Serroni, presidente dell’Associazione I Sedili di Napoli, è una delle voci storiche della cittàmondo, un cantastorie con uno sguardo onnipresente sulla linea del tempo, rendendosi contemporaneo ai popoli in ogni periodo storico: egli, mentre racconta, è presente alla fondazione di Partenope, è a cavallo nel Medioevo, è alla corte di Federico II o Carlo III nelle pieghe fondative del paese, si accompagna a Masaniello e alla Serao, guarda i parlamentari di San Lorenzo mentre accolgono il regnante di turno, attraversa le fiamme dei cimiteri e il canto dei presepi. Lo incontriamo all’Archivio Storico di Napoli, immerso tra le installazioni del progetto «Maresistere», dell’artista Roxy in the box, dedicato al fenomeno delle migrazioni (a proposito di conservazione attiva della memoria).
Presidente Serroni cosa sono i Sedili di Napoli?
Partiamo da un presupposto. Il nostro progetto è il recupero della memoria storica dell’amministrazione della città di Napoli. Una città di origini greche che si è sempre autogovernata attraverso le famiglie che occupavano spazi di territorio. Questa cosa si è trasferita dopo la caduta dell’Impero romano, già nel periodo ducale con le famiglie dei Gentilomini. Dal Medioevo in poi, si insediano i Sedili, ovvero gruppi familiari patrizi, erano sei, che si prendevano cura di quelli che oggi possiamo chiamare “quartieri”. Erano un sistema elettivo democratico, gli eletti restavano in carica un anno. Poi insieme formavano il tribunale di San Lorenzo, il parlamento del popolo napoletano, una vera e propria repubblica. Insomma l’attuale San Lorenzo Maggiore, sulla cui facciata si vedono ancora oggi gli stemmi araldici dei sei sedili. Tutto questo è durato fino all’Ottocento quando, dopo la parentesi francese del 1799, Ferdinando recepì lo scioglimento dei Sedili e con decreto reale li soppresse definitivamente.
Quindi i Sedili esistevano, nonostante i regnanti conquistatori?
C’erano privilegi per cui la città aveva il diritto di far entrare o meno i regnanti. Loro dovevano prima chiedere il permesso alla città di Napoli e se, attraverso i Sedili, veniva concesso l’ingresso, allora il re di turno poteva prendere possesso del Regno. In fondo era necessario mantenere la pace. Napoli era una capitale che ti si poteva rivoltare contro. Ad esempio quando gli spagnoli volevano portare le inquisizioni anche qui, ci furono rivolte e battaglie nel 1647 e alla fine l’hanno spuntata i napoletani. L’inquisizione non c’è mai stata. I Sedili avevano potere di legiferare. Il governo reale ratificava le decisioni che uscivano da questa repubblica.
Dunque la responsabilità della presenza dei conquistatori è anche nostra?
Relativamente. Loro dovere era di rispettare la nostra autonomia. La cultura, le scienze, le arti, la tradizione, la lingua venivano conservate. Infatti un residuo dei sedili di Napoli oggi ce l’abbiamo, ed è la Deputazione del tesoro di San Gennaro. Le deputazioni erano 9, ognuna si occupava di un settore. I sedili poi si sono estesi in tutto il regno, tranne in Sicilia dove c’era una forma feudale di potere. Se vai in Calabria e in Puglia, di sedili ce ne sono tanti. Avevano potere amministrativo, politico e il popolo concorreva. Erano cinque nobiliari e un Eletto del popolo. Tra questi vi fu il duca di Buonvicino, Ippolito Cavalcanti, oppure Giulio Genoino durante la rivolta di Masaniello, proveniente da Cava de’ Tirreni e iscritto al seggio del Popolo.
Quanto è importante oggi trasmettere questa storia ai nostri contemporanei?
Essenziale. Se non conosci le radici, il futuro non c’è, un albero destinato a morire. Parte della memoria della città è stata cancellata. Considerando gli 800 anni di Sedili, i 700 anni del periodo ducale, mi chiedo chi li conosca? Attraverso i nuovi strumenti di comunicazione si può incidere sul recupero della storia e dargli un segnale di dignità. I napoletani hanno radici profonde nel dna, bisogna mettere i pezzi insieme. Bisogna recuperare i simboli della propria identità. Hai un patrimonio culturale che altri non hanno e puoi trasmettere, possiamo insegnare un po’ di civiltà. Invece dal 1860 in poi si sta inculcando nella mente dei giovani il pensiero di cancellare la cultura precedente. Ed è un danno.
Quali sono i temi pregnanti dell’associazione?
Siamo una onlus, ma ci occupiamo della tutela dei bei culturali immateriali. Siamo a sostegno delle feste come momento di coesione sociale attraverso la nostra identità, recuperiamo cortei storici. Raccontiamo la storia della Deputazione per la festa di San Gennaro. Siamo promotori di un comitato per la candidatura Unesco del culto e devozione popolare di San Gennaro nel mondo. Un santo che ha 25 milioni di fedeli ovunque, tuttavia a Napoli non esiste più una vera festa. Stiamo cercando di riprenderla. La festa non è certamente quella di adesso. Quella tradizionale si organizzava intorno alla chiesa, punto di riferimento della popolazione, e attraverso le processioni si svolgevano una serie di attività, si raccoglievano i fondi per la festa di piazza con lo spettacolo di canzoni. A questo proposito, la festa di Piedigrotta era famosa in tutto il mondo. Poi su beni materiali, stiamo recuperando una chiesa, Santa Maria Stella Maris, collocata nel Centro Storico, in stile neogotico, abbandonata da tempo. In questa piazzetta si è preservata anche la fontana della selleria legata ai moti rivoluzionari di Masaniello. Lo stile del neogotico veniva dall’Inghilterra. Anche il Duomo ha una facciata neogotica, come la chiesa di San Pasquale a Chiaia.
Prossimi eventi?
Stiamo cercando di riportare da 8 anni la tradizione del culto dei morti a Napoli. Il presepio per tradizione si comincia il giorno dei defunti. È legato al racconto della rigenerazione. Nel giorno dei morti, i napoletani si recavano a San Biagio dei Librai dove veniva organizzata la fiera di Natale. Acquistavano il sughero e costruivano il presepe. Questa tradizione è andata persa. Molti sono convinti che il Natale inizia dall’8 dicembre. Ma non è così, e non è l’Halloween. La nostra tradizione è molto più antica, legata alle leggende popolari. Fino agli anni Settanta viveva la tradizione dei bambini. Sciamavano con le cascettelle dei morti. Le costruivano con il cartone, disegnavano ossa e teschi, andavano a cogliere l’obolo, per la salvezza di un’anima. Affonda le radici nella cultura antica greca e romana. I poveri quando chiedevano l’elemosina, dicevano “fate bene all’anima del purgatorio”. Era una preghiera di salvezza. Per le strade, sotto alle edicole votive, si possono ancora vedere nicchie, grotte dove inserivano le anime del purgatorio. Prima si mettevano quelle di terracotta, figure immerse nel fuoco. Oggi, le fotografie dei defunti. In effetti il rapporto con la morte è complesso. Anticamente i deceduti non venivano seppelliti, non c’erano i cimiteri. Durante le epidemie, erano gettati nelle caverne, scavate all’epoca dei greci per costruire la città. Il Cimitero delle Fontanelle ne è un esempio, dove si ammassavano i corpi di coloro che erano morti per colera e peste. A Napoli c’è la tradizione di far onorare i morti per strada, li condividiamo. E dunque – tornando ai bambini – si intonava una canzoncina. Esiste a questo proposito un bel libro pubblicato per le Edizioni Langella, “Le cascettelle dei morti”, dove si spiega bene questo evento. Esisteva una piccola litania in cui si invitavano i passanti a lasciare l’obolo. L’11 novembre prossimo, riproduciamo questa tradizione. Siamo inoltre all’ottava edizione della processione dei frati morti, organizzata insieme ad associazioni dell’Abruzzo. Un’altra leggenda popolare secondo la quale alcuni monaci furono invitati a pregare per le anime di persone decedute durante un incendio. Di fronte al loro rifiuto, per punizione, ogni anno nella notte dei morti ricompaiono e pregano con una candela. Troviamo questa immagine anche nel presepio, ne hanno raccontato Ernesto De Martino e Roberto De Simone.
Ma si fa abbastanza per preservare la tradizione e la storia?
Napoli ha perso la sua memoria di capitale europea. Gli stessi amministratori la trattano come una città di provincia. Il cambio continuo di amministrazione comporta un’inesistenza di indirizzo politico. Oggi la situazione è un macello. Si sta omologando tutto. La gente mangia zeppole e panzarotti, ma non conosce il luogo in cui sta mangiando, non conoscono i portici angioini. In queste strade è passata la storia del mondo. Gli stessi commercianti non sanno nulla. Il circuito religioso è forte ma non c’è un posto di accoglienza per i pellegrini.
D’accordo, ma perché raccontare Napoli oggi diventa responsabilità per l’Italia intera?
Basta leggere ‘La pelle’ di Curzio Malaparte, che ti dice cos’è Napoli. L’unica città del mondo antico sopravvissuta a se stessa. Rimasta ancora viva. Si autodifende. Dal 1860 al 1870 c’è stata una resistenza all’occupazione piemontese durata 10 anni. L’hanno chiamata brigantaggio. I soldati napoletani furono deportati al nord nei lager. Dopo esplosero l’emigrazione, la chiusura delle scuole e delle fabbriche. Oggi c’è una ripresa della napoletanità. Napoli è una città davvero eterna. Certo continuano le emigrazioni, sono quelle dei cervelli. Ma dove hanno studiato? Qui. Il Sud in generale può essere una grande opportunità di ricrescita.