Berto Lama: un mondo misterico che emerge dall’infanzia

di Davide Speranza

Quanta storia pulsa sotto la pelle di un tessuto ricamato e trasformato in opera d’arte? Il teatro, l’epica e il mito, la frenesia del mondo circense, il senso del tempo trasformato in racconti come figure in movimento di un antico carillon. La mostra di Berto Lama, Sconfinamenti (in questi giorni alla Galleria Verrengia di Salerno) ha il dono di consegnare le chiavi di un mondo fiabesco, di quelle fiabe nate dall’immaginario dantesco o del Basile. L’artista originario di Pozzuoli, ma da tempo a Roma, mischia la narrazione delle grandi opere letterarie ai propri ricordi di vita. Pittore, scultore, attore, scenografo, Lama tesse – il verbo non è un caso – il percorso allestitivo utilizzando la stoffa come materiale per creare dipinti, sculture, gioielli, mosaici. È il silenzio del teatro a riempire lo spazio, la scena teatrale è una drammaturgia nella quale personaggi usciti fuori dalle opere di Omero, dalla Divina Commedia, da immaginari biblici, felliniani e cinematografici sembrano affacciarsi al proscenio e invitare il pubblico a salire sulla giostra o nella bolgia di un groviglio di corpi ricamati, ritagliati come il cut-up delle parole di William S. Burroughs.

«L’idea non è mia, ma del gallerista, che andando a Venezia ha visto le opere di artisti che potevano avvicinarsi alla mia sensibilità e mi è stata fatta questa proposta che non mi aspettavo – racconta Berto Lama – Ma tutto si è sviluppato grazie ad un caro amico, Nunzio Vitale di Salerno, che già in passato aveva preso in considerazione i miei dipinti su stoffa. Insieme a Erminia Pellecchia, si è pensato di fare questa mostra. Sono stati scelti dei lavori depositati ancora a Pozzuoli, in questa casa dove il terremoto era endemico e che ho lasciato per stare più tranquillo a Roma». È così che nascono opere come quelle della serie “Ragnatele” (Venere, Adamo, Cavallo di Troia, Medusa) dipinti su lino e cotone, o la serie “Specchi” (Armando/Narciso, Acquasanta, Arancio, Giullare) dove il gioco delle riflessioni tra parete e parete lancia una sfida psico-prospettica all’osservatore. Non mancano ballerine queer e figure antropomorfe in lino imbottito o monili e gioielli ricavati dall’assemblaggio di pietre, vetri, tessuti dipinti e bambù, e ancora sculture arricchite di merletti e stoffe di ogni tipo come Fioritù e Uomo albero.

«Facendo anche il costumista, per Mario Martone, ho capito che il tessuto era parte integrante della mia vita artistica – spiega Lama – L’ho preso come protagonista della mostra, si potevano realizzare scarpe, collane, vestiti, quadri. Il tessuto è anche memoria, non posso tralasciare un polsino ricamato a mano abbandonato e che forse qualcuno butterebbe, al contrario per me potrebbe diventare un fiore in un quadro fatto di sassolini di mare. C’è stato un periodo della mia vita in cui ho dipinto solo a olio, ma con il tessuto e le stoffe per me è più facile raccontare. Quello che io trovo migliore è il lino. Sul lino il colore non sbava, ma esistono tessuti che reggono il colore altrettanto bene, ad esempio il raso. Insomma volevo raccontare la mia vita, attraverso i disegni. La mitologia, il circo, mi hanno sempre appassionato da piccolo. Ho mischiato il mito con le mie storie personali. Si è intrecciato con la mia vita senza che lo volessi, come una pianta che si attacca ad un’altra per avere un sostegno. Per esempio, mi sono rivisto dentro il mito di Orfeo. Sembrava anche la mia storia. La storia di non guardarsi indietro altrimenti diventi una statua di sale. Ma io non lo sono diventato, anzi la mia vita è cambiata in meglio, sono diventato una statua di marmo pentelico».

È lo stesso Berto a diventare personaggio tra i personaggi sul palco della Galleria Verrengia, una creatura delicata che viaggia nella scomposizione di leggende e vita reale, come lascia intendere la giornalista Erminia Pellecchia nel testo critico a lui dedicato: «Storie sognate e riemerse dai ricordi dell’infanzia, raccontate, fin dagli anni Ottanta con il linguaggio tessile, cifra dominante dei suoi lavori; quelle sontuose composizioni, ottenute con materiali recuperati e rigenerati con la linfa gioiosa di colori sgargianti, luminosi, che offrono una tregua, sia pur illusoria, alla dura realtà di un oggi sotto la minaccia dell’apocalisse… Lama gioca con gli oggetti e lo spazio, scova “tesori” abbandonati – un bottone, una trina, un velluto cesellato, un lampasso, un broccatello, un vetro colorato, frammenti di vite passate che nelle sue opere acquistano una second life – manipola, ricicla, ibrida, scompone e riassembla, mescola l’alto e il basso, crea drammaturgie insolite con i suoi teatrini pop di pensieri scomposti, stravaganti e poetici».

Sul suo percorso Lama ha incontrato i grandi della cultura italiana tra gli anni Settanta e Ottanta, ricoprendo diversi ruoli nell’ambiente teatrale. «Fui scelto dalla compagnia di Mario e Maria Luisa Santella, come scenografo – ricorda timidamente, e affastella momenti e artisti, sovrapponendo tempi, passati, voci – Nel lavorare insieme a loro, ho capito che si poteva fare di tutto. Un giorno Mario mi ha chiesto di realizzare una bistecca. Stavamo lavorando su una commedia di Molière. Ho fatto una bistecca con fil di ferro, carta e colore che sembrava vera. Il teatro mi ha insegnato che quando sei sul palcoscenico e hai paura, forse puoi dare il meglio di te stesso. La mia storia teatrale è nata con La Pergola a Firenze. Maria Luisa mi chiese di leggere una lettera, ma non ero mai stato su un palco. C’erano molti critici in sala. Allora ho iniziato a leggere, impazzivo dalla paura, eppure ho affrontato l’esperienza in una maniera così assurda. Il critico Carlo Emilio Poesio scrisse che l’unico davvero bravo ero stato io. Da lì sono arrivato a fare i monologhi, erano la mia vita. Sono stato cresciuto nel palazzo dei mutilati a Pozzuoli. Così ho trasfigurato quei pezzi di vita in storie. Portai in scena Palazzo dei Mutilati e Il sogno di Pochia Pochia, quest’ultima era una clochard che per dormire prendeva il 401 di notte mentre io mi ritiravo a Pozzuoli da Piazza Vittoria. Mi ispiravano quelli che mi circondavano. I personaggi che mi stavano intorno. Erano tempi fervidi. Mario Mortone in Ritorno ad Alphaville, mi diede mano libera per fare i costumi. C’era Antonio Neiwiller. Si debuttò a Caserta. Fu una cosa bella, questi costumi che dovevano essere soltanto bianchi, erano diventati quasi delle sculture. Mario l’ho conosciuto da piccolo, quando stava con Vittorio Lucariello. Lo Spazio libero. Alba Primiceri. La mia storia è stata lunga, fatta di pezzettini. Ancora Lucio Amelio. Abitando in via Domenico Morelli ero quasi vicino di Lucio, un altro grande. Il mito di Memè Perlini. Perlini amava queste folle infernali di attori dove ognuno diceva la sua. Ho fatto anche televisione e con Manuela Kustermann portammo I signori Boulingrin di Georges Courteline. C’era ancora chi ti faceva ripassare la parte. Poi le cose sono cambiate anche con la televisione. Ho iniziato a realizzare opere di stoffa, bambole di teatro, a partire da Vittorio Lucariello in poi. Le stoffe per me sono anche le tende, i sipari. Infatti vorrei fare una mostra solo di tende. Tende che sono veramente dei sipari incredibili, che mi affascinano tanto. Non sai mai cosa c’è dall’altra parte».

Il mondo misterico di Berto Lama emerge dall’infanzia, mentre dipingeva i vetri della finestra di sua nonna. «La signora di fronte mi osservava con il binocolo, e quando mi incontrava mi dava un confetto. Mi premiava – dice – Mi faceva piacere, per il confetto ovviamente. Ricordo il mio teatrino, che mettevo sulla finestra. Gli altri bambini ascoltavano le mie storie con le marionette. Un teatrino che adesso non c’è più e mi manca molto. Me lo avevano regalato i miei nonni, si montava e io lo avevo abbellito con un sipario ricamato e lucente. C’erano quattro marionette e mi inventavo storie per incantare gli altri. Il ricordo più bello era quando stanco della giornata, di saltare e giocare, mi ritiravo tardi, come un monello, ero distrutto, con i piedi sporchi, mi buttavo sul letto e mia nonna mi puliva i piedi. Mi addormentavo e lei mi puliva».

Diverse le esposizioni. Nel 1987 realizza la sua prima personale allo “Show Room Teodora” a Napoli. Nel 1993 per Lia Rumma produce una suggestiva installazione nella curia di Sant’Anna a Nantes, nel 1995 e nel 1999 partecipa alle collettive alla Galleria Paola Verrengia e all’edizione Turnover #3 del 2021. Sempre nel 2021 a Pozzuoli nel Rione Terra presenta l’installazione “Tutti giù per terra”. «A Nantes ho fatto una mostra bellissima al Festival des Allumées, dove mi hanno dato uno spazio meraviglioso che ho riempito di ragnatele, poi ho dipinto anche la parete confondendola con la stoffa. Mi diedero la cittadinanza onoraria».

In Sconfinamenti a Salerno, tra le stanze espositive, il mondo di Berto Lama traspare come una polvere magica e luccicante. Lì, negli spazi della Galleria di Via Fiera Vecchia, rinascono i teatrini del bambino che dalla finestra tesseva storie per gli altri piccoli del quartiere. E in mezzo ai quadri e alle sculture, si stagliano come osservatori silenziosi, alcune scatole di cartone decorate, contenitori delle collane e dei gioielli di stoffa tenuti sotto teca. «Ho realizzato quelle scatole con tanto amore, ogni collana ha la sua scatola e i suoi colori, le sue immagini, pensavo di fare dei regali che fossero speciali per chi li possedesse. Collane da gran teatro. Vetri, gemme che metto da parte per un eventuale uso. A casa ho piccole scatole che contengono bottoni, pietre, che al momento opportuno, dopo tanta scelta, devo inserire. A volte può essere anche una biglia, un vetro di murano. Da un po’ di tempo sulle collane metto anche l’oro, la polvere d’oro. La stoffa la prendo girando per i mercati, la compro anche a metraggio. Se ho una mia camicia che non indosso più, che ha il colletto consumato e che devo buttare, ritaglio la parte buona per farne un’altra cosa. Senza stoffe non si cantano messe. Sono la sostanza di cui è fatto il mio mondo».

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