‘Quel che sono stato, l’ho sognato…’: la graphic novel di Luigi Mascolo venuta dal sogno
Dal sogno è provenuto un turbamento tradotto in parole e figura. Come da sempre a ritornare verso se stesso. Senza profferire verbo o suono che ne turbino l’inevitabile presenza. Così Luigi Mascolo firma il suo luogo a procedere verso i labirinti dello spazio più percorso dalla speculazione intellettuale dell’uomo.
Dalla funzione messaggera, divisa nell’ambiguità e nel dubbio se essa fosse attendibile o ingannevole, che assumeva nella concezione antica come tramite della volontà degli dei (dibattuta anche tra la contemplazione di Platone che ne negava l’origine divina e il fondamento del sonno-veglia considerato da Aristotele), passando per i congegni immanenti tra Shakespeare e Pedro Calderón de la Barca, fino alle teorizzazioni individuali e collettive della psicanalisi, poco è riscontrabile di più battuto del sogno nella materia letteraria.
Lo stuff pronunciato da Prospero per definire la materia primaria dell’uomo, in una possibilità interpretativa più ampia delle creature, è il termine non pienamente traducibile che rappresenta il legame complesso e multiplo che in quel senso della sostanza evoca ogni cosa disponibile a configurare spazio e movimento. La materia del sogno non è soltanto la singolarità di un elemento, ma l’interezza di una composizione che muove e anima il mistero celato dietro il respiro di quella struttura percepibile dal suo interno o da una distanza incalcolabile. Dagli spazi infinitesimali delle particelle alle misure siderali, il sogno è lì, nell’oscillazione tra il reale e il suo inquieto immaginario.
“Raschia la linea degli occhi l’inganno del telo”
Vinicio Capossela, Le pleiadi
Quel che sono stato, l’ho sognato è la graphic novel che descrive questa antica inquietudine dagli occhi di un protagonista che si rivela luogo di contenimento di tutto quanto alla sua esistenza non è bastato per risolvere e conservare persone e cose di passaggio. Un grande e intimo irrisolto si sviluppa in una narrazione rappresentata attraverso un ibrido tra racconto e fumetto.
L’opera di Luigi Mascolo, divisa in più volumi intitolati diversamente e di cui è in uscita la terza parte (Luna e Catene sono i sottotitoli rispettivamente della parte prima e seconda), è introdotta nel volume primo da una presentazione di Davide Speranza, che ha curato anche l’editing dei testi, che sottolinea l’influenza che un certo tipo di cinema sembra esercitare sul lavoro di Mascolo. Il secondo volume, invece, è preceduto da una prefazione a cura di Davide Bottiglieri, che si sofferma su aspetti di natura semantica e suggestiva, sottolineando soprattutto l’utilizzo da parte dell’autore di termini ed elementi dal significato specifico. Una scelta che, probabilmente, lo mette al riparo da fraintendimenti all’interno di una rappresentazione generale estremamente fondata sull’ambiguità.
Il racconto di Luigi Mascolo alterna un doppio piano narrativo. In uno si manifesta una densità descrittiva affidata a monologhi apparentemente fuoricampo che aprono o chiudono a paralisi figurative che, attraverso l’alternanza di immagini a colori e in bianco e nero, rivelano e occultano l’oggetto di fondo. Probabilmente per alienare lo spazio ospitante dalla consumazione temporale che sembra agire sul protagonista. Il suo intorno appare fermo e inospitale, mentre il suo interno esistenziale non riesce a scorgere possibilità di fuga da un mondo terzo e intermedio che si insinua tra gli interstizi di queste due dimensioni.
Il protagonista del racconto è condotto alla relazione con se stesso attraverso un ripiegamento del tempo che gli restituisce le rielaborazioni a cui sono stati sottoposte le figure del suo passato che a causa di un’enigmatica riproposizione insistono nuovamente sul suo presente per una totalità spaziotemporale che pare formarsi per finire dentro un’oscura e irrisolvibile destinazione finale. Uno spazio puntiforme spinge, nessuno sa se in verso di attrazione o di respingimento, per sfuggire o perseguire un’inquietante rivelazione.
Il sogno di Mascolo è senza sonno. Pare insinuarsi in un processo senza origine in cui quello che appartiene al suo stesso protagonista (o gli è appartenuto) appare e scompare come le falene intorno a un faro che si accende e si spegne in una scena del primo volume. Non mancano elementi di natura citazionistica: dal Pennywise di King, a sua volta ispirato a un’antica fiaba norvegese, passando per la serie di Die Toteninsel di Böcklin.
L’indagine tormentata e incubosa del suo protagonista indugia sui suoi trascorsi, svelandone gli incanti in un grande svanimento che paradossalmente fa da apparizione agli occhi di un uomo che scopre di non aver avuto abbastanza tempo per vivere da poter distinguere il dolore di quello che non è stato e l’incomprensibilità di quello che è stato. Là dove il sogno muove le sue azioni tenere e spietate. Un candore gelido e vitreo in cui s’alleva la “scena priva di sostanza ora svanita”.