Terrazze al sole di Massimo Bignardi, un libro per reimparare a guardare
Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose
ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto.
Ma la superficie delle cose è inesauribile
Italo Calvino
di Eliana Petrizzi
Cos’è il paesaggio: superficie o profondità? È forse una profondità che si è fatta superficie? Terrazze al sole, il libro scritto da Massimo Bignardi edito da Liguori, racconta il viaggio compiuto lungo tutto il secolo scorso da numerosi scrittori, poeti e filosofi come Rilke, Nietzsche, Sartre, Camus, Cocteau; ma soprattutto da artisti come Pechstein, Kokoschka, Kandinskij, Escher e altri, che ebbero un’influenza importante sulla storia della ceramica di Vietri sul Mare, come Irene Kowaliska. Ma anche Picasso, fino a Peter Willburger e Bernd Zimmer, con cui Bignardi intrattiene a fine libro una conversazione di grande intimità e bellezza. Il viaggio viene raccontato attraverso una serie di vere e proprie piccole monografie, tessere di un mosaico ricco ed articolato. È il libro scritto da uno studioso meticoloso, appassionato – più che ai percorsi degli artisti di cui narra – al suo Sud, che rivive in queste pagine. Scorrendo la storia del Grand Tour del XX secolo, Bignardi riscrive in effetti un’affascinante “geografia autobiografica”, rivivendo in filigrana la sua infanzia e le sue memorie, ritrovando la luce e i colori della sua terra. Il viaggio diventa così esperienza del riconoscimento.
La terrazza è per la casa ciò che l’agorà era per la città greca: luogo comunitario aperto sul paesaggio, elemento di comunione e di dialogo tra il privato e lo spazio naturale e cittadino, metafora del raccordo tra l’aspetto introspettivo (la casa ricordata dall’autore, il suo vissuto di uomo), e quello pubblico dello studioso, che guarda gli altri parlando degli altri. Il Sud mediterraneo è quello della nostra costiera, di Paestum e Pompei, ma è anche la Sicilia. Perché tanti artisti stranieri iniziano a recarvisi a partire dai primi anni del ‘900? Perché il Sud dell’Italia è il luogo del mito pagano, e ancor prima dell’archetipo primitivo di popoli e culture da cui trasse slancio la Magna Grecia; la casa perduta abitata dall’immaginario collettivo, un modo di sentire la luce e le forme che deriva dalla nostalgia di quel perfetto, irripetibile stato di compiutezza e di grazia che fu il Classicismo ellenico.
Il Sud è il ventre materno nel quale si desidera tornare, origine e fonte. È il mare che nasconde le reliquie di civiltà estinte, oltre ai resti delle statue delle divinità dell’Olimpo; è l’Eden nostrano, che Paul Gauguin andò a trovare in Polinesia; è il luogo in cui le forme architettoniche, memori di eredità romane, greche, arabe e saracene, intrattengono un dialogo di calda armonia con i colori e le materie prime del paesaggio, nel racconto visivo di un assoluto presente. Qui, post impressionisti ed espressionisti seppero traslare l’esperienza visiva in esperienza spirituale, abbandonando la propria cifra per rispondere a un primitivo richiamo della luce, giungendo infine ad una potente sintesi simbolica delle forme.
Ma essi seppero trovare anche la semplicità del quotidiano, in cui uomo e natura dialogano incessantemente, fuori dal chiasso alienante delle nascenti metropoli dell’epoca capitalistica; una vita, come scrive Max Beckmann, “che semplicemente esiste, senza pensieri o idee”, ritrovata prima negli anni della Prima guerra mondiale, e successivamente in quelli del boom economico degli anni ‘50 e ‘60. Più che un libro di storia dell’arte, Terrazze al sole è quindi un libro sul tema del viaggio inteso come gesto radicale dello sguardo, fatto di attenzione e di cultura, come ricorda Franco Arminio nella prefazione al libro. Di fatto, ogni meta esiste solo se guardata, perché scoperta e ricreata dagli occhi attraverso il vissuto personale.
Nel secolo scorso, molte cose accadevano per la prima volta. Oggi, invece, il mondo si è fatto piccolo, a causa della globalizzazione e della crudele stupidità degli uomini. Ed è diventato anche meno interessante: troppo spesso, i riti e le tradizioni dei popoli diventano spettacoli recitati ad hoc per un manipolo di turisti paganti, nel circo dell’antropologia da selfie. Tutto passa in fretta, senza lasciare il tempo della sedimentazione emotiva di ciò che vediamo. Si scattano miliardi di foto che non solo non si stampano né si conservano, ma nemmeno si guardano. I taccuini di viaggio si fanno sempre più rari, sostituiti da una foto su Instagram. Ma c’è una cosa che nessuna foto o video potranno mai sostituire: è l’abitudine allo stupore, è meravigliarsi di ogni cosa e persona, in una ritrovata appartenenza alla grande anima del mondo. Uscendo dalle proprie case e affilando negli occhi un’attenzione diversa – e mai questo è stato così importante come nei mesi che stiamo vivendo da un anno a questa parte – il viaggio comincia anche senza partire. Basta un luogo a noi molto familiare, o come in questo libro, la traccia che vi ha lasciato un artista. Quando siamo distratti, quando non cogliamo la straordinaria varietà che ci circonda, il mondo si fa amaro. Il rimedio è andare, conoscere, fare, donare sempre e ovunque, operando la cultura del viaggio come lavoro gioioso, attento e disponibile. Con una scrittura ricca, colta, asciutta e profonda, Bignardi ci parla in fondo soprattutto di questo.
© Disegni di Peter Ruta