Nelle parole di Pietro Grasso emerge tutta la trattativa Stato-mafia
In occasione della liberazione di Giovanni Brusca, alcune dichiarazioni di Pietro Grasso hanno fatto seguito all’avvenimento (articolo apparso sul Corriere della Sera). Dichiarazioni, quelle di Grasso, che non hanno destato reazioni particolari, o, almeno, non quanto e come sarebbero state recepite in altri tempi. Ormai, gli ardori dialettici si prestano ad altri argomenti.
“Abbiamo vinto tre volte: mettendolo in carcere, facendolo collaborare e scarcerandolo. Lo Stato ha mantenuto la parola, un forte segnale agli altri boss”
“Con Brusca lo Stato ha vinto non una ma tre volte: la prima quando lo ha arrestato, perché era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia per numero di reati e ferocia. La seconda quando lo ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali sugli anni in cui Cosa Nostra ha attaccato frontalmente lo Stato. La terza ieri, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai”.
Non è questa la sede – nemmeno sarebbe poi così utile – per commentare risvolti di natura giuridica, del resto non sottoponibili a giudizio, vista la giusta applicazione della legge. Subentrano altri aspetti, e non è detto che siano immediatamente comprensibili, se non addirittura così diffusi sul piano della sensibilità collettiva. Viviamo un’epoca in cui sembra così difficile tirare fuori dai lager milioni di persone, figuriamoci confidare di ottenere quell’indignazione così integra che qualche poeta trascorso aveva a suo tempo già condannato all’oblio che si trova nel fondo degli abissi di una civiltà riluttante a provare vergogna, rabbia, costernazione, tutti sentimenti oramai inefficaci a rendersi innesco a ogni genere di reazione.
Le vicende giudiziarie di Brusca, il meccanismo che le hanno condotte e le parole di Grasso suggellano qualcosa che dovrebbe inquietare invece che suscitare soddisfazione. Non è il fatto che un uomo che avrebbe commesso reati così gravi sia uscito di galera scontando una pena meno dura di quanto molti si sarebbero aspettati, anche ignorando come la legge regoli le condizioni dei pentiti. Non è la credibilità che certi accadimenti in qualche modo mettono sempre in dubbio, non è il deludente risvolto di fondo per chi inevitabilmente avrebbe desiderato maggiore severità per uomini così spietati. Non è nulla che riguardi l’intorno che è destinato a sbattere contro una muraglia di vetro impenetrabile, soffrendo la frustrazione e la desolante arrendevolezza di chi, in maniera smarrita, disorientata, contempla insoddisfatto la sua sete di giustizia.
La sconfitta, se di sconfitta si può parlare (largo alle retoriche!) è nel fatto che questo apparato chiamato Stato lasci intendere di aver ancora bisogno dei pentiti per battere la mafia. Di fatto, ha bisogno della mafia stessa. E ne ha bisogno in un dibattimento segreto, un processo senza fine in cui alla sbarra compaiono figure comunicanti con un esterno che gode di un oscuro luogo a procedere. Prima che riflettere sull’opportunità di applicare il cosiddetto criterio premiale del diritto, occorrerebbe riflettere se sia ancora valido quel meccanismo di vasi comunicanti che il sistema giudiziario tanti anni fa aveva inaugurato grazie al lavoro e alle idee di alcuni magistrati. Mutato il fenomeno, non potrebbero essere necessarie altrettante revisioni? Prima di tutto, definendo fino in fondo quello che questa organizzazione criminale significa, fino al midollo delle sue espressioni, dei suoi linguaggi, delle sue azioni, dei suoi piani e della sua capacità di leggere il tempo e nel tempo, a prescindere se essa prenda parte ai processi per determinarli.
In quelle parole riecheggia l’accordo Stato-mafia, sì. Non l’accordo in quanto tale, ma l’essenza che questa espressione porta con sé. Ci finiscono dentro anche le cose mai rivelate, l’aver creduto e il non aver creduto. Non può bastare – e per come sono andate le cose basta ancora meno – sbandierare il successo procedurale di un ordinamento per farlo coincidere col conforto che questa frase, “Lotta alla mafia”, alimenta richiamando una tale complessità di accadimenti, di persone, di luoghi, di secoli, per trasferirla improvvisamente a una soddisfazione che annulli in un istante la violenza, una violenza intima, così feroce da penetrare nella spiritualità di un’intera civiltà, perpetrata da questo fenomeno con i suoi strumenti militari, da esercito invasore, da sottosuolo serpeggiante e difficile da riconoscere, che non può rientrare nel novero di altre forme delinquenziali. Difficile rendere una dimensione alla pena, ma ancora più difficile renderla alla gravità che domina attraverso segni che mettono in forte dubbio pietà e umanismi così poco attendibili. Ben altro andrebbe ammesso, detto e per ben altro ci si dovrebbe adoperare. Ogni speranza è ormai vana. E non restano che sempre le stesse cose dette in maniera diversa. Anzi, ormai nemmeno più il modo di dirle si sforza di cambiare.
Lo Stato nei confronti della mafia continua a esercitare un riconoscimento latentemente politico, un meccanismo di potere che riconosce un altro potere, che ne omette il raffronto aspro, che ne ignora l’apparato militare. Un assorbimento della violenza. Un allineamento della gravità del crimine che applica la legge a freddo. E quelle asprezze le ha sempre subite, contemplandole come ostacolo aggirabile, mai realmente affrontabile al cospetto di un’organizzazione così potente e articolata, così radicata, dotata di un apparato militare, estesa e dispiegata tanto quanto un meccanismo statale alternativo, talvolta incrociato e coincidente con quello istituzionale. Il cromosoma di un organismo che, a suo tempo, ha rigettato qualunque cosa potesse guarirne certe ambiguità. Il coraggio di certi uomini nel tempo si è tradotto in un effetto collaterale, un rigetto, un’inquietante incompatibilità di fondo.
“Essere morti, è una fatica dura.
Un ímprobo ricupero di forze,
per avvertire un po’ d’eternità.
Ma i vivi, tutti aberrano, – segnando
troppo profondo il solco fra i due Regni”.
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi
Beati quelli che non hanno creduto. Beati quelli che non hanno creduto, sin da subito, sin da quando le stagioni delle stragi rivelarono che il bene e il male sono alleati notturni che alla luce del giorno si separano per fingersi acerrimi nemici. E invece, il loro peggior nemico è chiunque tenti di condurli smascherati al patibolo delle menzogne. Beati quelli che non hanno creduto, quando in luogo di una nazione milioni di uomini hanno dovuto assistere a sentenze di morte che avrebbero adoperato i condannati come lapidi sopra ben altre esecuzioni. Morti sopra altri morti. Beati quelli che non hanno creduto e che non crederanno, perché loro sarà il regno della terra e il sogno dei cieli.
In copertina dettaglio di Volo delle streghe, Francisco José de Goya y Lucientes