Venezia 78, giorno 8. ‘Freaks out’ di Mainetti è ambizioso ma a dir poco deludente
Freaks out è ambientato nella Roma del 1943, all’indomani dell’armistizio firmato dal generale Badoglio. Matilde, Cencio, Fulvio e Mario (interpretati rispettivamente da Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Claudio Santamaria e Giancarlo Martini) vivono come fratelli nel circo dell’impresario ebreo Israel (Giorgio Tirabassi, in partecipazione speciale). Ciascuno di loro è dotato di un potere speciale, che esibisce durante gli spettacoli che la singolare famiglia porta in giro con il proprio teatro ambulante. Cencio è albino e possiede l’abilità di comandare gli insetti, Mario ha le sembianze di Chewbecca di Star Wars ed è dotato di una forza erculea, Mario ha poteri magnetici, Matilda è capace di dare scariche elettriche a qualunque cosa tocchi, siano essi oggetti o persone. Dopo un bombardamento, Israel propone al gruppo di imbarcarsi e andare a cercare fortuna negli Stati Uniti. L’uomo scompare misteriosamente, dopo aver preso tutti i loro risparmi. I quattro “fenomeni da baraccone” restano soli nella città occupata dai nazisti. Qualcuno però ha messo gli occhi su di loro: si tratta di Franz (Franz Rogowski), un giovane tedesco con sei dita, capace di prevedere il futuro, che li sta cercando vedendo in loro un modo per poter cambiare il corso della Storia.
Sei anni di lavorazione, un’uscita più volte annunciata, una postproduzione estremamente laboriosa, un’anteprima annunciata e smentita più volte, così come la partecipazione a questo o quel Concorso internazionale. Ora finalmente (si fa per dire) Freaks out, secondo lungometraggio di Gabriele Mainetti dopo l’ottimo esordio Lo chiamavano Jeeg robot, ha avuto oggi alla Mostra del cinema di Venezia, dove è in corsa per il Leone d’oro, la sua anteprima mondiale. Diciamolo subito: la montagna ha partorito il topolino. Stamattina, al termine della seconda proiezione riservata alla stampa, il film è stato accolto da pochi applausi, qualche fischio e una generale indifferenza. Il 28 ottobre, con l’uscita in sala, la parola passerà al pubblico: vedremo se questo risponderà e se la produzione riuscirà a rientrare dal corposo budget, che supera abbondantemente i dieci milioni di euro (si parla di tredici ma sono probabilmente di più), parte dei quali investiti da Rai Cinema.
Con la sua smisurata e ambiziosa macchina spettacolare, il film costituisce probabilmente un unicum nell’attuale produzione italiana, e bisogna riconoscere che non manca più di un momento riuscito in cui Mainetti mostra una certa verve registica. Dall’altro lato, però, siamo costretti a registrare che Freaks out, a livello narrativo, funziona piuttosto male. Il difetto è nel manico, cioè nella sceneggiatura, firmata dal regista con Nicola Guaglianone, autore anche del soggetto. La storia appare, infatti, priva di compattezza, e il film sembra procedere per giustapposizione di quadri anziché ubbidire alla logica narrativa. Per fare qualche esempio, quando la giovane protagonista Matilde si trova con i partigiani (sulla cui buffa e farsesca caratterizzazione è meglio tacere, per carità di patria), a un certo punto confessa un episodio del suo passato. La ritroviamo successivamente al teatro di Franz, senza che venga spiegato allo spettatore come ha fatto ad arrivare là. A quel punto, viene poi riconosciuta e inseguita, anche qui senza un vero motivo, se non quello di trovare uno stratagemma drammaturgico per far sì che irrompa nel luogo in cui sono prigionieri i suoi amici e si ricongiunga con loro. Inoltre, nella sequenza in cui il gruppo corre a liberare Israel, non si capisce come i quattro freak siano a conoscenza del luogo in cui egli si trova. Tralasciamo di fare ulteriori esempi per non svelare, in questa sede, troppi episodi in modo da non guastare la sorpresa al pubblico che, si spera, andrà comunque in sala per rendersi conto di persona del risultato finale di questo ponderoso progetto, coltivato dal regista romano per diversi (troppi) anni.
L’impressione è che il regista abbia dedicato tutta la concentrazione alla costruzione della costosa e corposa macchina spettacolare, trascurando la cura necessaria a confezionare un racconto che fosse compatto nella forma e attendibile nello sviluppo. Certo, Freaks out è un’opera che affonda le sue radici nel fantastico, genere che richiede allo spettatore una buona dose di sospensione dell’incredulità ma, in questo caso, a mancare è proprio la coerenza, intesa come logica interna, l’attenzione alle caratteristiche dei personaggi (dei quali poco o nulla sappiamo, eccetto quello che essi sono capaci di fare con i rispettivi superpoteri), i raccordi narrativi, come abbiamo provato a riassumere nel paragrafo precedente. Insomma, gli occhi del regista sono tutti puntati in direzione dell’armamentario estetico, con la volontà di suscitare nello spettatore la meraviglia, di sedurlo con una messinscena rutilante ma il rischio è che questa sovrabbondanza, questa incessante, muscolare esibizione di effetti speciali rischi di scivolare ben presto nella bulimia, rendendo ogni singola sequenza fine a se stessa, e dove ogni parte poco o nulla si amalgama con l’insieme.
Difficile sapere quale sarà il destino cui andrà incontro Freaks out al momento della sua uscita in sala (Covid permettendo). La nostra idea è che la strada del generoso sforzo produttivo vada senz’altro percorsa e incoraggiata ma, al contempo, è necessario non navigare a vista ed essere ben consapevoli della direzione che si intende seguire, magari chiedendo supporto a sceneggiatori capaci di imbastire plot narrativi meno schematici e scolastici.
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