Intervista a Bianca Senatore. A bordo della Ocean Viking per “un melting pot di umanità che scappa dagli orrori del mondo.”
di Davide Speranza
Tra i banchi della Federico II a Napoli, ricordo la lezione di un professore di Geologia, durante la quale si premurava di spiegare il fenomeno delle crociate in ragione dei cambiamenti climatici. Altro che guerra santa e cristi in croce da difendere. Malattie, siccità e carestie spingevano gli europei verso paesi vicini, a conquistare popoli e risorse esterne. Bisognerebbe chiedersi sempre la motivazione. Come arriva il mitico Enea sulle coste italiche? Cosa spinge Ulisse a solcare mari e approdare in terre pericolose pur di raggiungere la sua Itaca (più che Penelope)?
Dall’alba dei tempi, l’uomo ha basato la sua sopravvivenza sullo spostamento. Il punto è che lo spostamento di una comunità risulta essere sempre dettato dalla violenza del potere, che lo si subisca o lo si eserciti. Dietro ci sarà una storia tragica di perdita, fratricidi, sottomissione, ricerca del sé perduto chissà dove, di terra promessa. Ricordo un’intervista che realizzai al giovane Enaiatollah Akbari, all’indomani della pubblicazione del libro Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini&Castoldi) di Fabio Geda. Era il suo incredibile viaggio dall’Afghanistan all’Italia. E poi le interlocuzioni con gli immigrati di una cooperativa di Castel San Giorgio (un piccolo paese in provincia di Salerno) costretti a scappare dalle guerre del Medio e Vicino Oriente. Ancora, le ribellioni dei migranti a Sarno (Agro nocerino, tra Napoli e Salerno): occuparono un hotel e si chiusero dentro, a causa delle estenuanti procedure burocratiche della Commissione regionale, da cui dipendeva l’assegnazione di rifugiato politico. Setaccio nella memoria e compaiono libri come Mediterraneo di Sergio Nazzaro e Luca Ferrara (Round Robin Editrice) o Preghiera del mare di Khaled Hosseini (SEM-Società Editrice Milanese), La vita davanti a sé di Roman Gary pubblicato per Neri Pozza (la storia del giovane arabo Momo, cresciuto da Madame Rosa nella banlieu di Belleville).
Del 2011 è l’ultimo film di Emanuele Crialese, Terraferma presentato alla 68a Mostra cinematografica di Venezia. Quante sono le storie che parlano di emigrazione? Cosa resta di questi libri, film, canzoni nelle pieghe quotidiane della gente? Cosa resta dei documentari che mostrano milioni di italiani costretti a lasciare il Paese tra Ottocento e Novecento? Sappiamo così poco di quel che accade lungo le rotte balcaniche e nel Mediterraneo centrale. Bisognerebbe andare lì, nelle loro terre, quelle da cui scappano, per capire, per vedere cosa significa fuggire e sperare. Allora forse si capirebbe il senso dell’aggrapparsi, la follia, la perdita dell’“esistente”.
La giornalista Bianca Senatore (collaboratrice di Repubblica, The Post Internazionale, Radio Popolare, Radio Svizzera Italiana, Vanity Fair, l’Espresso, Linkiesta) ha deciso di vivere in prima persona le tragedie delle fughe migratorie tra mare e terra, salendo a bordo della Ocean Viking (le è stato conferito, a Verona, il premio Natale Ucsi 2021, dedicato al giornalismo solidale, per l’articolo pubblicato su L’Espresso) e percorrendo le rotte umane ai confini dell’Europa. Mischiando reportage, attivismo e giornalismo sociale, ha provato a dar voce all’uomo migrante di questi anni Venti. Non sono popoli spinti da crociate. La guerra ce l’hanno in casa. Bianca vive quei momenti e quelle guerre personali, è una giornalista che sa ben utilizzare le distanze, è cronista e presenza attiva. Le notti gelide, il mare in tempesta, il terrore di trovare corpi ammassati nella neve o in balia delle onde, riuscire a tornare al quotidiano mantenendo un equilibrio tra morte e vita. Mentre Bianca parla, le vibrazioni delle sue parole si amplificano, ma non si rompono mai, non cala il ritmo, non c’è spazio per la commozione – per quella ci sarà modo e tempo, da soli, lontano dal clamore –, ora è tempo di raccontare e di far aprire gli occhi alle comunità occidentali.
Bianca, da dove nasce il tuo mestiere?
Semplicemente racconto ciò che sta avvenendo sul campo. È sempre stato l’obiettivo del mio giornalismo, scrivere guardando, affrontare le storie delle persone, le sensazioni. Se non sei sul posto, non puoi capirlo, non puoi comprenderlo. Quel che faccio io è un approfondimento, bisogna viaggiare, è faticoso. Stiamo parlando di spendere soldi in prima persona, sono una freelance, quindi mi autofinanzio i viaggi. Ma quando decido di intraprendere un percorso, lo faccio perché voglio seguire una determinata storia, in fin dei conti scommetto su me stessa.
Perché hai deciso di salpare?
Mi interesso da anni della situazione migratoria. Conosco la Ong SOS Méditerranée. Li seguivo come giornalista. Lavoravo per Radio Popolare. L’organizzazione mi ha proposto di andare a bordo per osservare da vicino quel che succede. Dal punto di vista emotivo sapevo esattamente cosa mi aspettava, che saremmo stati in mezzo al mare, che avrei visto tante persone disperate, avrei potuto vedere dei cadaveri. Ho capito che in mare non ci può essere programmazione. È una esperienza che ti sconvolge, avviluppa tutti i sensi. Non è solo una questione professionale.
Cosa succede in questo nostro Mediterraneo?
Ci sono centinaia di imbarcazioni che partono dalla Libia, con a bordo tantissime persone stipate sulle navi, spinte a forza dai trafficanti di uomini che si prendono i loro soldi, ma non hanno a cuore che loro arrivino dall’altra parte. La Ocean Viking è una delle navi umanitarie che solcano il Mediterraneo centrale nella zona SAR, tra Malta e Libia. Cercano di salvare quante più persone possibili. Muoiono a centinaia e nessuno lo sa, perché nessuno lo racconta. La gente viene inghiottita dalle onde e sparisce nel nulla. Scappa da guerre e violenze.
Per quanto tempo sei rimasta a bordo?
Sono stata 47 giorni. Queste persone erano stravolte, malandate, ferite, erano sotto shock. Molte donne erano state stuprate. Le prime ore e i primi giorni sono serviti per tranquillizzarli, sono stati curati dal personale medico a bordo. Le donne sono state visitate, hanno parlato con uno psicologo. Ho parlato con tanti di loro. Avevano voglia di raccontare la loro storia. Ho raccolto molte testimonianze. Ragazzi, ragazze, donne, uomini sono quasi tutti scappati da guerra, terrorismo, torture. Il viaggio verso l’Europa è l’ultima speranza per cercare di non morire. La Libia è il paese più instabile che si affaccia sul Mediterraneo, il caos regna sovrano, i trafficanti di uomini sfruttano questa destabilizzazione. La maggior parte dei migranti non è libica. Vengono dall’Africa subsahariana, dai villaggi della Nigeria, Eritrea, dal Tigrè, Somalia. Anche i ragazzi del Bangladesh, schiavi negli Emirati Arabi Uniti, nel Qatar, portati lì con l’illusione di lavorare e guadagnare, mentre vengono inseriti in una catena di schiavitù. Un melting pot di umanità varia che scappa dagli orrori del mondo.
Hai assistito in prima persona ai naufragi?
Tra le tante, la Ocean Viking ha soccorso un barcone di legno che stava affondando, c’erano almeno 100 persone già finite in acqua, altre intrappolate nella parte inferiore dell’imbarcazione. Siamo riusciti a salvare tutti. Non ci sono stati morti, siamo stati fortunati. In quei momenti non hai il tempo per razionalizzare la situazione, hai tanta adrenalina in corpo, pensi a cosa fare e come aiutare, per cui è tutto talmente frenetico che non c’è modo di rendersi conto di nulla. Mentre quella gente era in acqua, tutto intorno a noi era l’oscurità più totale. Ricordo, e mi viene la pelle d’oca, il faro della nave che inquadrava e illuminava l’acqua nera del Mediterraneo.
Quali sono le cause?
Motivazioni politiche. L’Europa ha assunto una politica di chiusura dei suoi confini, che si concretizza nel caos italiano con pagamento di una cifra alta alla cosiddetta guardia costiera libica. Questa viene pagata con soldi e strumentazioni per non fare arrivare le persone in Europa. Sono respingimenti illegali, non si possono respingere persone che scappano dalla guerra, persone che avrebbero diritto allo status di rifugiato. Questa è la legge del mare. L’Europa se ne frega di quel che accade in Libia, dove le persone vengono riportare indietro, in centri di detenzione che sono veri e propri lager. Lì gli aguzzini torturano, stuprano, uccidono. A bordo della nave mi hanno raccontato di torture inaudite. Ragazzi cosparsi di benzina e lasciati nel mezzo del deserto da soli, finché non avrebbero preso fuoco da soli. Però continuiamo a respingerli, da noi come in Grecia, Spagna, l’Inghilterra con il canale della Manica. Tutti adottano le stesse politiche. Le notizie vengono stemperate. Se la gente sentisse tutti i giorni i racconti delle torture libiche, magari due domande in più se le farebbe.
Quante rotte hai seguito?
Dopo il Mediterraneo centrale, la rotta dell’Egeo in Grecia e quella balcanica. Quest’ultima è una rotta intrapresa essenzialmente da siriani, afgani, pakistani, il lato asiatico. Altrettanto micidiale, ma poco raccontata. Le persone muoiono di fame, sete, perché vengono torturate dalle guardie di frontiera. Possiamo dire che è stata meno presa di mira dalla propaganda. Una parte della politica italiana ha infatti utilizzato il fenomeno migratorio del Mediterraneo e lo ha trasformato in una emergenza. Difficilmente abbiamo sentito Salvini prendersela con i trafficanti di uomini tra Bosnia e Croazia.
Su questo versante cosa sta accadendo?
Tra Polonia e Bielorussia c’è una rete di filo spinato, la stessa cosa tra Ungheria e Serbia e anche tra Lituania e Polonia. Stiamo diventando un continente di muri. I profughi dei campi vivono in condizioni di estremo disagio e difficoltà, la maggior parte delle volte non hanno le attrezzature adatte per vivere a temperature basse, hanno le scarpe rotte, hanno dovuto guadare dei fiumi, attraversare torrenti, hanno le giacche inzuppate, sono malnutriti, non bevono da giorni. Tra loro ci sono tanti bambini. Un bambino di un anno e mezzo è morto congelato nella foresta tra Polonia e Bielorussia. Anche in questo caso i migranti mi hanno raccontato la loro storia, scappano dalla guerra, dai talebani.
Il momento che più ti ha commossa?
Quando un gruppo di donne sono accorse per portare aiuti a una famiglia siriana che era riuscita a superare il confine e si era rifugiata in un giardino. Gli hanno portato tè, coperte. I siriani poi sono stari presi dalla polizia e respinti oltre il confine. Questo gruppo di donne mi ha raccontato della rete di solidarietà dei cittadini polacchi, il loro non accettare la politica disumana del governo. Così sfidano la polizia e, come simbolo di accoglienza, hanno scelto una luce verde che appendono alla finestra in modo che eventuali migranti in difficoltà sappiano che in quella casa sono accolti, che quella è una casa sicura. È evidente che tutte queste situazioni sono legate a strategie geopolitiche. La crisi tra Bielorussia e Polonia è innescata da Lukashenko, che sta usando i migranti per far pressione sull’Unione europea. Vuole che l’Europa elimini le sanzioni a carico del suo paese e nello stesso tempo cerca di colpire la Polonia. Arrivare in quei posti è stato difficile. È una fascia di 3 chilometri che separa la Polonia dalla Bielorussia, una fascia di emergenza prorogata dal governo polacco che prevede il divieto assoluto per giornalisti e Ong. Ma sono riuscita, col mio fotoreporter, ad addentrarmi nelle foreste.
Cosa ti aspetti dai tuoi lettori?
Che si pongano domande. La cosa importante è far arrivare storie e informazioni. Se un lettore, grazie a un mio articolo, riesce a costruire una riflessione o un dibattito, questo per me è il premio più importante. Significherebbe aver fatto informazione nel vero senso della parola.