Casa Morra, un libro di storia dell’arte che si apre su Napoli

di Davide Speranza

Un pezzo di città diventa progetto di immaginazione continua, sul passato, sul presente, sul futuro. Il palazzo storico, il quartiere che lo contiene, la gente, l’aria, la Storia, ogni singolo centimetro di materia fanno parte di un sogno concepito e partorito (nel flusso amniotico della terra ferma) da Giuseppe Morra, e poi messo in pratica. Cos’è Casa Morra? Un libro di storia dell’arte (l’arte tutta, dalla sperimentazione pittorica al teatro, dalla materia inorganica alla carne messa in scena) che si apre su Napoli, racconta l’uomo e non contempla la parola “fine”. A Palazzo Cassano Ayerbo D’Aragona (dove si ritrovano interventi architettonici di Ferdinando Sanfelice), nello spazio/tempo di Salita San Raffaele è stato fondato un cervello/archivio: le sinapsi sono i desideri, le azioni e le parole trovano le cuciture organiche dentro le opere accolte, abbracciate, rinvigorite contro gli inverni del silenzio e del piattume globalizzato. Gutai, Happening, Fluxus, Azionismo Viennese, Living Theatre, Poesia Visiva. Incarnano l’alfabeto che salverà il mondo degli uomini e delle donne, e che nei decenni futuri darà conto della poetica umana, a dispetto delle devastazioni dei corpi e dell’anima.

Qui parte Il gioco dell’oca: 100 anni di mostre, un piano di esposizioni, eventi, opening dal 2016 – a partire dal quale sono già stati realizzati i progetti L’avanguardia americana (Duchamp, Cage, Kaprow), I giganti dell’arte dal teatro (Beck, Shimamoto, Nitsch, Beuys), L’arte italiana-3P+B (Pietroiusti, Patella, Pisani, Balestrini) – fino ad arrivare nel 2116. Non è un refuso. I 100 anni di allestimenti, acquisizioni, installazioni sono partiti per bucare il futuro e portarlo qui, adesso. Uno squarcio metafisico tutt’altro che campato in aria. Ogni anno ha la sua programmazione per intervalli: 2016-2023, 2025-2046, 2047-2067, 2070-2076, 2077-2097, 2098-2104, 2105-2116, quando si immagineranno (ancora una volta) nuove ere e nuovi mondi. Giuseppe Morra è insomma un visionario, che ha portato avanti il suo studio di scopritore e mecenate a Napoli fin dagli anni Sessanta, avviando poi la Fondazione Morra (di cui è presidente Teresa Carnevale) e il Museo Archivio Laboratorio per le arti contemporanee Hermann Nitsch, tempio napoletano dell’omonimo artista viennese e centro di studio dei linguaggi artistici attraverso le discipline più disparate, dall’antropologia alla filosofia.

Per i sogni reali di Morra sono passati i più grandi: Günter Brus, Gina Pane, Marina Abramovic (ricorderete la celebre performance che l’artista serba offrì nel progetto Rythm 0 del 1974, quando rimase per ore nuda dinanzi al pubblico, come un oggetto da violare: l’esperimento fu pianificato nella Galleria Studio Morra). Nonostante l’esperienza costruita a cavallo di due secoli, la Fondazione ha sentito di doversi rigenerare, di allacciare più intimi legami con i quartieri che ha trasformato in luoghi d’arte pulsante. Da qui la decisione di scrivere un nuovo piano di comunicazione e di farlo elaborare dagli studenti del corso di Laurea Magistrale in Comunicazione pubblica, sociale e politica (Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II) sotto la guida della professoressa Rosanna De Rosa.

È stato a questo punto, all’indomani della presentazione dei piani elaborati dai giovani universitari, che ho incontrato Giuseppe Morra, sulle alture delle vigne di San Martino, nel cuore verde di una Napoli che osserva il mare dall’alto e traccia orizzonti mediterranei certamente anche quelli usciti fuori dai pensieri anarchici del collezionista partenopeo. Seduti su una panca, tenendo alle spalle il blu dell’acqua, i volti ad arlecchino sagomati dai mosaici d’ombra dei pergolati in festa, parliamo. Morra non è legato alla storia e alla narrazione di sé. Alle continue domande, risponde cesellando concetti, utopie, è un processo misterioso che ti introduce ai suoni della sua mente.

Dalla parola-carne emergono gli echi di Engels, Bakunin, Stirner, il pensiero anarchico individualista. Chi vuole conoscere meglio il personaggio e i centri studio che ha fondato a Napoli non ha che da cliccare su fondazionemorra.org, casamorra.org e museonitsch.org. Mentre parla mi rendo conto che stiamo percorrendo due binari diversi, ma non asintotici. Questa impostazione ci rende liberi, io nelle richieste e lui nelle reazioni. L’uno rispettoso dell’altro. Mi accorgo che non c’è alcun accademismo in quest’uomo, ma un enorme, potente istinto animale verso la sensibilità. La divora, ne assimila per osmosi gli intrecci. Egli sente e percepisce con sensi ingigantiti – come un non vedente che acquisisce altre peculiarità – il mondo dei creativi e la società circostante. Possiede come un campo elettromagnetico che si scontorna e si muove, anche quando sembra rimanere serafico e fermo. Un istinto che lo ha portato ad alimentarsi della grande cultura internazionale, del pensiero dei filosofi, delle piccole contraddizioni umane e quotidiane. Su una sedia di paglia della casina di campagna riposa una copia de Il Mattino, ricorda l’impresa del Napoli nella vittoria del primo scudetto. Anche lì ci sarebbe da andare oltre lo sport in sé, parlare di antropologia, di riti e riscatti. Anche lì ci sono frammenti di quest’uomo. Ma non c’è tempo e non è il luogo. Così pian piano divento strumento a fiato per dare spazio al pensiero del Morra.

Partiamo dalla sua esperienza. Cosa ha significato costruire un percorso che l’ha portata fin qui?

Penso sempre che i sogni sono realtà attraverso le quali l’uomo deve avere la possibilità di realizzarsi. Più che sogni sono dei progetti. In maniera differente ti arrivano alla mente e cerchi di eseguirli in base a quelli che sono i disideri. Ma non sempre deve essere tutto così concepito e pensato, né quando si realizza qualcosa di differente dal normale è necessario parlare di sogno o utopia.

Quando ha capito che il suo percorso di vita si sarebbe votato all’arte? La sua famiglia l’ha condizionata?

Non penso che emissioni di carattere culturale, sociale e di discendenza possano essere materia di continuità; noi viviamo con il proprio essere, con il proprio io individuale. Certe cose si fanno in base alla propria volontà. L’esperienza inizia fin da bambini e ti porta a raggiungere i risultati. È difficile dire quando ho cominciato il mio percorso, se è nato a 16, 15, 14 ,13 anni o forse ancor prima di esser nato; per ognuno di noi fin dall’origine, ancora prima della nascita, esistono significati interiori. Si nasce in base a quelli che possono essere i risultati dei progetti che andrai a realizzare.

Il primo progetto fattivo?

Parto sempre dalla mia esperienza, più che nell’ambito dell’arte. Dalla mia esperienza di ragazzo che mal voleva accettare e condividere le condizioni che la società cercava di imporgli. Sono stato sempre fuori dalle norme. La metodologia non c’è. C’è un’appassionata ricerca di qualcosa che ti arriva in maniera facile, naturale. Non c’è artificio. Fare scuola, fare progetti è una pratica straordinaria come quella dell’artigiano che si trova a creare un paio di scarpe e lo fa in maniera perfetta. Noi siamo artigiani del nostro tempo, così come delle nostre cose. Lavoriamo intorno alle nostre capacità, interpreti di noi stessi.

Casa Morra, Napoli è l’origine?

Napoli è stato il luogo dove sono confluite diverse opportunità. Io stesso ho trovato più facile muovermi in questo territorio, più che in altri posti. Gli artisti che mi hanno affiancato vivevano questa magia dell’essere, a distanza di 30 o 40 anni ti accorgi che è stato fatto qualcosa di particolarmente importante. È un processo. Le cose avvengono e tu devi avere la capacità di sostenerle, accettarle, condividere senza paure che sia qualcosa di troppo grosso e di impossibile. L’uomo deve imparare a utilizzare mezzi di carattere istintuale.

L’inizio.

L’inizio è stato alla fine degli anni Sessanta. Ma precedentemente c’erano state alcune esperienze straordinarie. Mi son trovato ad acquisire un certo numero di opere di un artista napoletano poco conosciuto. Parlo degli anni Sessanta. Guglielmo Gatti. Mi sono trovato quasi in una condizione di inerzia. Coincidenza, capacità, volontà, la magia che c’è intorno a te. Le sorelle non potevano conservare le sue opere. Sono venuto in possesso di questo materiale. Così ho fatto una importante mostra all’American Studies Center. Non ero ancora nessuno, neanche sapevo perché facevo questo. Era un istituto di cultura americana che dava la possibilità di conoscere la lingua e di poter studiare. Coincidenza ha voluto che mi si presentasse un dirigente di questo spazio. Furono gli anticipi di un percorso. Ecco, non è un caso che poi leggi Friedrich Nietzsche, e ti accorgi che prima di lui c’era Max Stirner, quindi lo studio e la lettura di Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Non c’era scritto assolutamente da nessuna parte che avrei dovuto seguire un itinerario interpretativo che mi ha portato a oggi. Il futuro non lo conosco. So che mi sto addentrando in qualcosa di diverso. Più forte diventa la preoccupazione di cosa sarà il nostro mondo domani. Da un lato mi trovo verso questa straordinaria possibilità di oltrepassare il confine del nostro mondo e andare su altri pianeti o rimanere all’interno del nostro mondo, recuperando quelli che sono i luoghi di grande bellezza e possibilità. Non ho mai creduto nelle grandi città o nello sviluppo che sta avvenendo. L’uomo sta perdendo il senso della bellezza. La moda, l’economia, il senso di ciò che circonda il bisogno dell’uomo, tendenzialmente vanno soltanto da una parte e questo è contro le mie interpretazioni e intenzioni per raggiungere qualsiasi qualcosa.

Artisti che hanno segnato il suo percorso?

A me la storia non interessa. Sono cose avvenute. È bello sapere che si può essere stati protagonisti e di aver apportato cambiamenti. Si poteva fare anche di più e meglio. Marina Abramovic ad esempio è stato un episodio, facile che poteva accadere. A Napoli con me si erano verificate altre precedenti situazioni. C’erano stati artisti come Gina Pane. Poi si sapeva che c’era possibilità di trovare a Napoli uno spazio come il mio e Marina è arrivata così.

Cosa l’affascina dei filosofi?

Max Stirner mi affascina per la ideologia legata all’anarchia individuale, Rudolf Steiner mi attrae per le sue interpretazioni riguardo all’amore della natura. La natura è fonte prima delle capacità, interprete dei significati che ci avvolgono. Come quando una pianta cresce e un’altra non cresce. Devo dire che sono attratto dalla filosofia di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, gli utopisti tutti. Poi Nietzsche, Heidegger, Gadamer, la filosofia del contemporaneo. Ma soprattutto Nietzsche mi ha lasciato un segno forte dentro. La poesia è sempre affascinante, il pensiero poetico è qualcosa che ti raggiunge senza alcuna spiegazione, la senti, la partecipi e la vivi.

Lei ha creato due realtà museali a Napoli. Perché è rimasto in questa città?

Non ho fatto una scelta di carattere strategico. Come una pianta nasce in un luogo e difficilmente attecchisce poi se portata in un altro luogo. Ho vissuto tante differenti possibilità. Il mondo non mi è rimasto indifferente. Ovunque sia andato sono rimasto affascinato dalle bellezze che ho trovato. Casa Morra si configura come un progetto di sistemazione di esperienze fatte in tutto questo tempo. Mi sembra giusto, necessario. Il fatto è che non ho fatto le gallerie per esporre gli artisti o appendere le opere alle pareti. Io ho vissuto con gli artisti che sono venuti a Napoli e hanno lasciato molti dei loro grandi lavori. Ho fatto, senza strategie, e ho ottenuto. È un peccato che questi documenti e opere, gli archivi che possediamo possano essere dispersi o non abbiano la possibilità di essere letti e conosciuti. Noi lavoriamo in questa direzione. Vengono studiosi di tutto il mondo ad analizzarli e a vederli. Julian Beck e il Living Theatre, Judith Malina, hanno scelto me come possibilità attraverso cui il loro lavoro potesse avere una collocazione, così come Hermann Nitsch, Luca Maria Patella, Vettor Pisani, Shozo Shimamoto e tanti altri artisti. Sono stati in sintonia con me.

L’incontro con Hermann Nitsch come avviene?

È stato uno di quegli artisti che all’inizio mi hanno portato conflittualità interiore. Ma non l’ho lasciato e sono andato a cercarlo, ho trovato una chiave, ho letto le sue interpretazioni di vita, i suoi significati, la sua poetica filosofica estetica artistica. Mi determinava in un certo senso, mi faceva pensare che fosse così tanto vicino il rapporto tra le cose dell’esistenza. In una intervista fatta a lui dice che noi non cercavamo nulla l’uno dall’altro, ma qualcosa di particolare ci ha tenuti legati, l’entusiasmo per la vita. È stato l’artista che più mi ha influenzato. A entrambi ci legava un significato dell’essere, determinato dalla realtà individuale dell’io e dell’altro. Ovviamente poi lui ha avuto modo di fami capire molte cose, in modo particolare la conoscenza del mondo della musica, Bruckner, Schönberg. C’è stata una lezione e lui ha sostenuto una crescita che in me si è avverata in base ai principi di maestro e allievo.

Cosa significa per lei “Futuro”?

Lavoriamo sulla continuità. La Fondazione ha un suo statuto preciso, possiede un grande lascito testimoniale. I 100 anni di mostre, che poi è “Il Gioco dell’oca”, indicano il tempo attraverso il quale possano verificarsi cose certe. Poi, dopo, il gioco dell’oca dovrebbe continuare in un movimento a spirale. Il tempo è qualcosa di aperto, aperto al tempo stesso. Il punto è che il nostro è un tempo breve. Nel duemila mi aspettavo che noi esseri umani avremmo potuto fare grandi passi in avanti. Ma siamo nel 2022 e ci troviamo a vivere ancora guerre in casa, conflitti interiori. Mi piace frequentare artisti giovani, ma il mondo oggi è rivolto a necessità materiali, gli artisti non seguono più la poesia dell’aspettare. Si lavora sul breve tempo, sulla necessità della moda, sul denaro.

A proposito di futuro, nel vostro team ci sono molti giovani.

È bello ci siano ragazzi che vivono un entusiasmo che ci unisce e mi fanno pensare che questa idea può avere una sua continuità.

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