‘Babylon’, la Hollywood sfrenata e disperata di Damien Chazelle non ci racconta niente
Los Angeles, 1926. Il messicano Manuel “Manny” Torres (Diego Calva) lavora come tuttofare in una major hollywoodiana. Al termine di una serata in cui è riuscito a trasportare, non senza imprevisti, un elefante a una festa nella lussuosissima villa di un dirigente dei Kinoscope Studios, incontra un’aspirante attrice, la conturbante e disinibita Nellie LaRoy (Margot Robbie), tanto bella quanto disperata, e se ne innamora subito. La mattina dopo, ancora stravolto, Manny riporta nella sua villa il celeberrimo attore Jack Conrad (Brad Pitt), alle prese con l’ennesimo divorzio. Da quel momento, la vita del giovane messicano cambia per sempre mentre a Hollywood sta avvenendo qualcosa di epocale: il passaggio dal cinema muto a quello sonoro, [sinossi].
Forse portando in dote il suo Oscar per la regia, vinto nel 2017 con La La Land in una premiazione a dir poco grottesca (forse qualcuno ricorderà l’incidente dell’annuncio sbagliato), cui ha fatto seguito il poco apprezzato The First Man, Damien Chazelle è riuscito a ottenere la faraonica cifra di 80 milioni di dollari per finanziare il suo nuovo film che, fin dalla durata (oltre tre ore), ha le dimensioni e le ambizioni di un vero e proprio kolossal, per quello che si appresta a diventare un vero e proprio flop commerciale. Molto scarsa è stata, infatti, finora la risposta del pubblico statunitense. Chazelle parte da un anno cruciale per la storia del cinema, quel 1926 che vide il passaggio dal muto al sonoro, e la conseguente deriva di molte star, incapaci di adattarsi al nuovo corso, e conclude la sua vicenda nel 1952, anno di uscita di Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen e Gene Kelly, il musical più famoso di tutti i tempi, testo fondativo per i cineasti che, da quel momento in poi, si sono voluti misurare con questo genere, particolarmente in voga nella Hollywood dei tempi d’oro. Chazelle fa sicuramente parte di questa schiera di cineasti: le sue opere, fin dall’esordio con il piccolo Guy and Madeleine on a park bench e con l’unica eccezione del succitato film sull’astronauta Neil Armstrong (che – particolare curioso – condivide, peraltro, il cognome con uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi) parlano e si nutrono di musica: dal jazzista di colore della sua opera prima (e anche in Babylon c’è un trombettista in un ruolo importante), al giovane batterista del mediocre Whiplash fino all’apoteosi e al successo di La La Land, opera che, come Babylon, è imbevuta di cinefilia, e che chi scrive continua a ritenere il suo esito artistico migliore.
Se il musical oscarizzato aveva già grandi ambizioni, con i rimandi a grandi classici come Un americano a Parigi e un finale mutuato da Les parapluies de Cherboug di Jacques Demy, con Babylon Chazelle alza ulteriormente il tiro, con un lavoro dal respiro corale, dall’ambizione smisurata, eccessivo in tutto, e che prova a inglobare e fagocitare quanto più cinema possibile, come dimostra la sequenza finale, che non vi anticipiamo. Si parte da un lungo prologo, ambientato in una villa faraonica, dove si svolge una festa orgiastica e dionisiaca, a base di alcool e droga (e con l’inevitabile vittima sacrificale, come ogni buon sabba che si rispetti) che Chazelle mette in scena con immagini rutilanti, che sembrano imitare il barocchismo sfrenato di Baz Luhrmann. Un Wolf of Wall Street (il film di Scorsese) sotto acido – ha sentenziato qualcuno, non senza ragione. Questo baccanale iper-sfrenato è l’occasione di incontro per i protagonisti principali di una vicenda che li vedrà, di volta in volta, trionfatori e sconfitti, vittime e carnefici, stelle che brillano nel cielo e che poi finiscono nella polvere. C’è però da dire che il film non sempre chiarisce con precisione quanto accade, preferendo scegliere la strada, non sempre indovinata, dell’ellissi narrativa, talvolta dando l’impressione che qualche passaggio abbia subito un taglio netto di forbici per non gonfiare ancora di più un minutaggio già fuori controllo.
Il prologo è molto lungo, al punto che, solo dopo mezz’ora, gli spettatori possono leggere il titolo del film. Tuttavia, dopo una prima ora in cui non manca più di una sequenza riuscita (tra cui viene da segnalare quella, davvero ammaliante, del primo provino di Nellie LaRoy, con quella lacrima trattenuta e poi rilasciata al momento giusto fino a ottenere la scena perfetta), si capisce che Chazelle, forse troppo innamorato della sua creatura, va avanti per accumulo di immagini, di quadri giustapposti e di sequenze-choc piuttosto che seguire, almeno in minima parte, uno sviluppo narrativo coerente, necessario per dare sostanza all’immaginario rappresentato. Elefanti che defecano nel momento meno appropriato, mangiatori di topi, alligatori famelici, serpenti velenosi, lucertole formano un campionario zoologico che sembra fare da contrappunto al mondo messo in scena dal regista statunitense. I personaggi del film, quasi tutti inventati, fanno a meno di un qualsiasi disegno psicologico per presentarsi piuttosto come degli archetipi: il divo del muto rovinato dall’avvento del cinema sonoro, l’attricetta borderline in cerca di celebrità, il giovane “straniero” che sogna di affermarsi nella Mecca del cinema, la giornalista dal carattere puntuto e piena di sé, cui pure la sceneggiatura assegna il momento di maggiore verità finiscono per fornire, in sostanza, la descrizione superficiale di un mondo, come quello di Hollywood, assai più sfaccettato e stratificato. Ingenerando il sospetto che, tutto sommato, non abbia molto da dire (se non qualcosa di infinitamente “semplice”, a conti fatti), Chazelle appiattisce ogni complessità, descrivendo quel mondo come farebbe la penna di un giornalista di gossip, per quanto concerne il suo aspetto più deteriore, e come un sogno di bellezza infinita, per quello più magico e sognante. Ma a noi non serve e non interessa né l’una né l’altra descrizione.
Del resto Chazelle, come si era già visto fin da Whiplash, appare più a suo agio quando deve alzare i toni e i registri o quando può dare libero sfogo al suo innegabile talento di confezionatore di immagini che quando prova a impegnarsi nel tratteggiare e disegnare personaggi. In Babylon, questo limite appare però in tutta la sua tragicità e, per quanto si possa rimanere ammaliati dalla costruzione di alcune sequenze e da alcuni singoli momenti non privi di fascino (quasi tutti nella prima parte), la sensazione è quella di essere finiti su una nave senza più comandante, che va alla deriva, dritta verso un iceberg. Da un certo punto in poi, infatti, il film deraglia, perdendo completamente di vista la storia che sta raccontando e i suoi personaggi (alcuni superflui, tra cui la Fay Zhu interpretata da Li Jun Li, che di tanto in tanto appare in scena, senza particolare costrutto), finendo per inanellare una serie di situazioni in cui, più che la sospensione dell’incredulità, viene chiesto allo spettatori di ricostruirsi la storia un po’ da solo fino a un finale che si vorrebbe poetico ma che, a quel punto, appare solo grossolanamente didascalico. Hollywood – sembra dirci Chazelle – è quel mondo purulento fatto di sangue e merda, di corruzione e depravazione, quel luogo in cui, per girare una sequenza, c’è gente che fatica e che muore e che viene dimenticata. Però è sempre bello quando tutto questo si trasforma in film. Sì, è davvero molto bello. Ma non sempre, non così e, purtroppo, non in Babylon.
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