‘Decision to Leave’ di Park Chan-wook, l’amore fa il suo giro
Mentre indaga sulla morte di un uomo precipitato misteriosamente da una montagna che aveva appena terminato di scalare, il detective Hae-jun incontra la sfuggente Seo-rae, giovane vedova della vittima, di nazionalità cinese, che non sembra essere sconvolta per la scomparsa del marito e che, proprio per questo, diventa subito la principale sospettata dell’omicidio. Colpevole o innocente? Malinconica e misteriosa, la donna riesce a destare l’interesse del detective e accendere in lui una passione dirompente, che lo porterà a mettere in pericolo la sua professione [sinossi].
Nell’indimenticabile finale di Pickpocket di Robert Bresson, il ladro Michel, il borseggiatore del titolo, dopo essere stato arrestato, e cioè soltanto nel momento in cui accetta di mettere in atto la propria espiazione, da dietro le sbarre riesce finalmente a comprendere e rivelare a Jeanne il sentimento amoroso che prova per lei, evidenziando, al contempo, la traiettoria tutt’altro che lineare che il loro avvicinamento ha dovuto seguire: “Oh Jeanne, che strano cammino ho dovuto percorrere per arrivare fino a te”. Per stile, messinscena e sviluppo narrativo, Decision to Leave è un film radicalmente diverso dal capolavoro girato dal maestro francese nel 1959 ma ne condivide lo struggimento provato dai personaggi e la circostanza di raccontare un amore che, fatta eccezione per un unico bacio, resta inespresso quasi dall’inizio alla fine, vissuto quasi esclusivamente in sottrazione, per quanto sia sempre sul punto di deflagrare.
Park Chan-wook, noto al pubblico internazionale soprattutto per la “trilogia della vendetta”, costituita da Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta, torna alla regia sei anni dopo il troppo accademico Mademoiselle, e confeziona un’opera preziosa, di raffinatissima costruzione visiva e narrativa (meritato il Premio per la regia al Festival di Cannes per un’opera che avrebbe potuto ambire anche alla Palma d’oro), talmente curata da rischiare in qualche momento lo scivolamento verso il puro e un po’ gratuito esercizio di stile. Quasi paradossalmente, proprio cimentandosi in un genere in cui l’azione potrebbe portare più facilmente alla costruzione di sequenze in cui abbondino gli scoppi di violenza, qui Park, a differenza di quanto accadeva nelle opere che gli hanno tributato fama mondiale, riduce al minimo la presenza del sangue sullo schermo per raccontarci, invece, una storia in cui la scoperta del presunto autore di un crimine è solo il pretesto per mettere in scena una love story struggente, per presentarci l’immagine cupa e desolata di una passione frustrata e annichilente.
Il punto di partenza è il più classico degli intrecci noir, che tracima fin da subito nel melodramma: abbiamo, infatti, la morte di un uomo, caduto da un costone roccioso al termine di una scalata (la prima ipotesi è quella del suicidio), un detective che indaga, la vedova dell’uomo sospettata di essere responsabile della sua morte e della quale il poliziotto inevitabilmente si innamora. Tuttavia, Park sa plasmare con intelligenza la materia, riuscendo ben presto a uscire dalle secche della pura derivazione cinefila e letteraria, con un lavoro di decostruzione del thriller, di chiara impronta hitchcockiana (d’altronde, Park nel 2013 ha provato a rifare, con il modesto Stoker, addirittura L’ombra del dubbio, uno dei capolavori di Hitch). Partendo da questo spunto, sicuramente logoro, Decision to Leave si trasforma fin da subito in una riflessione sullo sguardo e sul punto di vista, sul linguaggio e i suoi limiti intrinseci ed estrinseci (Seo-rae parla un coreano claudicante e deve aiutarsi con un’App del telefono per decrittare il significato di alcuni termini), sulla parola e su quanto essa sia sfuggente e pericolosa.
In Decision to Leave, la parola è difatti destinata a diventare strumento di scacco e di inganno, oltre che di morte, capace di rivelare la verità soltanto quando è troppo tardi e di diventare strumento di annientamento, termine cruciale per lo sviluppo della narrazione, come si capirà meglio durante la visione. Quanto alla questione del punto di vista, il film abbonda di superfici riflettenti, di apparecchi di ripresa e di riproduzione, presentando un continuo spostamento del punto di osservazione, tra telecamere a circuito chiuso, fotocamere di cellulari, specchietti retrovisori, vetri da cui i poliziotti osservano l’interrogatorio della sospettata da parte del detective. Sotto questo aspetto, Park cede forse a qualche eccesso, come quando vediamo la soggettiva di un pesce morto e persino quella dello schermo di uno smartphone, ma riesce a restituire senza didascalismi, in maniera straordinaria, la complessità del mondo e la relatività di ogni apparenza.
Inoltre, l’operazione di sovversione dall’interno dei codici del noir trova il suo apice nella descrizione del protagonista maschile: se in Vertigo Kim Novak era la donna che viveva due volte, e il film abbondava di immagini femminili “duplici” in un continuo gioco di replicazioni virtualmente infinite, qui è il detective Hae-jun, in una momentanea digressione dal plot principale, a ritrovare in un delinquente incallito, ma fedele alla propria donna, una sorta di proprio doppio deteriore che, diversamente da lui, sarà capace di spingere fino alle più estreme conseguenze il suo sentimento verso la creatura amata. Per non parlare del modo in cui la regia “scrive” il film per immagini sovrapponendo in più di un’occasione il volto del protagonista con quello dei due mariti di una femme fatale allo stesso tempo spietata e dolcissima, angelo della morte ma capace, al contempo, di favorire il riposo dell’insonne Hae-jun e di cullarne il sonno come la più tenera delle amanti. In conclusione, Decision to Leave è un’opera meravigliosamente sfaccettata e stratificata, fulgida come un diamante, probabilmente lo zenit della filmografia di Park Chan-wook. Non perdetelo.
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