Le meccaniche celesti e la rivolta dei rifiuti: Roberto Salernitano rivoluziona Pinocchio
di Davide Speranza
«Come la tecnica del collage ha sostituito la pittura ad olio, il tubo catodico sostituirà la tela. Un giorno gli artisti lavoreranno con condensatori, resistori e semiconduttori come lavorano oggi con pennelli, violini e spazzatura… La pelle umana non è più adatta a interagire con la realtà. La tecnologia è diventata la nuova membrana del nostro corpo in relazione con l’esistenza». Chi si occupa di video arte e audiovisivi sperimentali riconosce la paternità di queste parole. Nam June Paik è stato uno dei primi a portare la fisicità dell’elettronica nel mondo dell’arte, a vedere in uno schermo televisivo un’opera, dando avvio a quel processo simbiotico/osmotico tra spazio umano e materia inorganica che ha cambiato per sempre il senso profondo della realtà. Andando indietro nel tempo, anno 1881, già uno scrittore (che sarebbe poi diventato famoso in tutto il mondo) aveva posto il dilemma del rapporto tra creatore e creatura, toccando forse inconsapevolmente la questione del senso della materia. Era Carlo Collodi: papà di Pinocchio. E con lui il Frankenstein di Mary Shelley, gli androidi di Philip K. Dick, che indagando la materia tutta, indagano il senso. Se questo non è teatro, allora cos’è?
Nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale – osannata e riverita come un nuovo Gesù Cristo ma senza croce – affiorano artisti/esploratori che non delegano la fantasia alle macchine, ma l’assecondano e la usano per attraversare il confine sacrilego tra organico e inorganico, per poi riaffiorare come portatori di nuove filosofie e nuove visioni. Roberto Salernitano è uno di questi visionari. Un Geppetto contemporaneo. Le sue creature sono macchine con piezoelettrici, corpi straziati movibili, circuiti che dettano ipotesi di presenza e ammiccano all’umano riflettendone sentimenti, anzi percezioni e suggestioni emotive. Lattine, buste per gelato, blocchi di mattone, strumenti sonori, utensili cordofoni si trasformano in installazioni artistiche, abitano il teatro primordiale del rumore e del nonsense, l’assurdo della circolarità e della ripetizione delle nostre vite così tecnologiche e così fallibili.
Napoletano, studioso di elettronica, il giovane performer si trova in queste settimane ad Amtserdam dove sta portando la sua perfomance al What Is Happenning Here Gallery, per poi tornare in Italia a Roma (il 9 aprile) negli spazi della Soho House come sound artist alla mostra di fotografia e videoinstallazione di Matteo Turchetti, a cura di Miriam Pinocchio (mai cognome fu più adatto all’argomento), e quindi Napoli il 10 e 11 aprile come responsabile del workshop legato al laboratorio di autocostruzione al terzo piano autogestito di Architettura. Bisognerebbe assistere agli spettacoli di Salernitano per capire. Braccia meccaniche ruotano all’infinito, pezzi di alluminio danzano alla luce sanguinolenta di un faro, mentre poco più in là una creatura biomeccanica mutilata tenta di rialzarsi ma non può che girare su se stessa come un cane che si morde la coda. È l’incomprensibilità messa in scena attraverso una serie di macchinari dal sapore anni Settanta e Ottanta. Il falegname dell’elettronica ne farà di strada, è una promessa.
«Cerco di portare un messaggio, un percorso, dove inseguo le mie device che mi fanno sperimentare e conoscere. Non sono io a fare queste cose, ma loro, hanno vita propria» dice Roberto, e quasi si commuove quando due lattine di Coca Cola iniziano il loro balletto triste, la sublimazione dell’animo di un poeta riverberato in un contenitore d’alluminio, anche se a ben vedere potrebbe essere il contrario. Ancora una volta, teatro e poesia. «Ad Amsterdam porto la performance frutto di una storia, di un processo in atto, al quale mi sto dedicando da un anno, cimentandomi nella costrizione di sculture e strumenti musicali, a cui do vita e loro danno vita a me. È il secondo punto di uno spettacolo realizzato a Napoli, al Teatro Avanposto. Il titolo è La rivolta dei rifiuti. In questo caso sarà una presa di coscienza e consapevolezza da parte mia. Creerò musica dal vivo, in una relazione diretta tra me e i miei strumenti. Lattina 1 e lattina 2. La parte musicale è composta da me. Mi dedicherò a suonare strumenti quali l’ukulele, un distanziofono che ho realizzato simile al theremin, e anche la forchetta, uno strumento posto al di sopra di un mattone di plexiglas con un altoparlante, un jack, un piezolettrico, ovvero un microfono a contatto che percepisce le vibrazioni sugli oggetti. Ci saranno 4 device attivi. Tutto questo rientra nel mixer a cassette, con 4 canali di entrata Fostex».
Meccanica, pelle e carne, rumore e suono, un braccio elettromeccanico gioca con le corde dell’ukulele, il canto del cigno delle lattine. Chi è reale: l’uomo o l’oggetto? Chi si fa cassa di risonanza del mondo: l’individuo o la collettività materica? «Il mio approccio riguarda una trasformazione, una crescita, un approccio primitivo tramite piezoelettrici – continua – Nel corso del tempo il mio percorso è diventato sempre più spigoloso, dettagliato, più sottile, andando a toccare diversi campi. Sono partito con il pianoforte, il mio primo strumento, poi sono andato oltre. Il mio è un uso del tutto particolare degli strumenti musicali. Non sono un musicista. Quegli strumenti sono me e io sono gli strumenti».
Roberto inizia lo studio del pianoforte da bambino e lo riprende verso i 18 anni. Ma il suono per la melodia canonica non lo interessa. Vuole suonare altre cose e allora parte con motorini elettrici a corrente continua, il controllo degli oggetti motorizzati ed elettrificati, la scoperta di Arduino, la piattaforma hardware capace di programmare qualsiasi cosa. L’artista napoletano inizia ad automatizzare l’archetto del suo violino. «La mia ricerca è data dalla mia necessità. Scoperto il mondo, sta solo a me andare a scegliere dove abitare. Bisogna scoprire. Il mio è il tempo del disgelo, la necessità è vivere. Poi in mezzo ci passano altre cose. Ciò mi comporta tante sfaccettature, l’amore, il presente, la chimica e la crescita di una consapevolezza. Vivere nel presente e nella consapevolezza di ciò che sei e fai. Tutto deriva dall’agire».
Tanti i riferimenti da cui trae ispirazione e che ha iniziato a studiare: dal pianista Herbie Hancock, al mitico Bruno Munari fino a Mario Schifano e Jan Cardell che costruisce macchine sonore. Macchina e sentimento. Questo cerca di invischiare Roberto Salernitano, polvere d’alluminio e sperma, muscoli ed elettricità. «Vivo sulla contraddizione, come per il teatro performativo di Grotowski che specificava come per azione fisica e movimento, la differenza la fa la coscienza. Essendo una contraddizione, una visione poetica, considero i miei device una sorta di coscienza, hanno una memoria, ragionano, pensano, sbagliano, non ragionano bene, c’è sempre un margine di errore nell’elettronica». Ecco allora, si stagliano sull’ombra del reale tanti Pinocchio-Macchina, non c’è un naso lungo o le gambe corte, e i diversi personaggi (il grillo parlante, la fata turchina, Mangiafuoco, l’omino di burro) sembrano tanto simili ai fantasmi degli abissi umani, suggeriscono un legame con la nostra condizione di esistenti, forse la poetica di Roberto Salernitano non ha nulla a che fare con l’elettronica, ma (sfiorando la filosofia di Franco Battiato) con la disperata presenza di Dio e l’assenza dell’Uomo.