“Silence” di Martin Scorsese: sia fatta la volontà dell’uomo
Tu dici di essere il Figlio di Dio… Ebbene, gli uomini finiranno col proclamare che la verità non è in Te, giacché non sarebbe stato possibile abbandonarli ad uno scompiglio e ad un tormento peggiori di come hai fatto Tu, lasciando loro in retaggio tanti affanni e tanti inutili problemi. In tal modo, Tu stesso hai posto i fondamenti per la distruzione del Tuo proprio regno e non puoi darne la colpa a nessun altro.
Se Dio non esiste, tutto è permesso.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I Fratelli Karamazov
Nel Giappone del XVII secolo due missionari gesuiti, Sebastião Rodrigues (Andrew Garfield) e Francisco Garupe (Adam Driver), intraprendono un lungo e pericoloso viaggio alla ricerca di padre Cristóvão Ferreira (Liam Neeson), il loro mentore scomparso che, secondo una lettera, avrebbe rinnegato la fede cristiana.
Cristóvão, Sebastião, Francisco. Tre nomi che rimandano a tre figure-chiave della storia del cristianesimo: il primo riecheggia il fondatore, Dio incarnato secondo la dottrina e la fede, mentre gli altri due sono tra i santi più famosi e venerati, l’uno morto martire trafitto da molteplici frecce, l’altro, il “poverello di Assisi”, austero, rigoroso propugnatore del Vangelo da seguire alla lettera, fondatore di un importante ordine religioso. Il regista Martin Scorsese covava questo progetto da molti anni, sin da quando nel 1988, durante le riprese de L’Ultima Tentazione di Cristo, un cardinale gli regalò una copia di Chinmoku, il romanzo di Shūsaku Endō, che narrava dell’apostasia di alcuni missionari gesuiti nel Giappone feudale, nell’era Togukawa, durante la quale il cristianesimo venne bandito e i “kirishitan” (termine nipponico che designava i seguaci di Gesù) espulsi, banditi o condannati a morte con terribili torture in caso di rifiuto di abiurare. L’autore di Taxi Driver si appassionò al testo e ne acquistò i diritti nel 1991, testo che peraltro ha già avuto una trasposizione cinematografica nel 1971 per la regia di Masahiro Shinoda, presentata in concorso a Cannes.
Inseguito per molti anni, costellato di accelerazioni e brusche frenate, Silence è per Scorsese, probabilmente, il “film della vita”, un po’ come Pinocchio per Federico Fellini e Napoleone per Stanley Kubrick (entrambi poi mai realizzati), l’opera in cui riversare le sue ossessioni e i suoi tormenti, gli aneliti di un’anima la cui cultura e storia sono imbevute di cattolicesimo, religione continuamente richiamata nei suoi film. Infatti, già a partire dal suo primo grande “colpo” cinematografico, quel Mean Streets, realizzato con budget risicato nel 1973, lo spettatore poteva ascoltare nell’incipit le parole pronunciate dalla voce fuori campo dell’inquieto protagonista Charlie (interpretato da Harvey Keitel) che esclama: “I peccati non si scontano in chiesa, si scontano per le strade, si scontano a casa. Il resto è una balla, e lo sanno tutti”.
Padre Rodrigues viene presentato nelle prime scene del film come un uomo dotato di una fede apparentemente solida e incrollabile, ma che è, in realtà, basata su precetti catechistici stantii, su un credo che non si è ancora misurato con le asperità della vita, con i tormenti e la sofferenza dell’anima e del corpo. Soprattutto, non ha ancora sperimentato cosa possa significare, per un uomo in difficoltà, quella cosa ostinata, misteriosa e imperscrutabile che è il silenzio di Dio. Il tragitto lo condurrà nel “cuore di tenebra” del Male assoluto dove, come il capitano Willard di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, troverà il suo Kurtz, ma, una volta incontratolo, riceverà da lui lo stesso trattamento riservato a Cristo dal Grande Inquisitore di Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov dove il Redentore viene rimproverato e condannato per la sua incapacità di calcolare gli effetti inutili, quando non nefasti, della sua predicazione.
L’uomo di fede inizia così a vacillare ed è costretto allora a interrogare Dio, a cercare qualche barlume che in qualche modo renda palese la sua presenza, un po’ come avviene ne Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Nell’opera del maestro svedese, infatti, la Morte sfidava il cavaliere Antonius Block, tormentandolo e accusando Dio del sostanziale abbandono degli uomini, di essere sordo e incurante davanti alle loro vicende e afflizioni.
Sorprendentemente, e non si sa quanto consapevolmente, pur partendo da una prospettiva da “credente” rispetto all’ateismo bergmaniano, Scorsese approda a risultati analoghi, realizzando non solo uno straordinario film sul Deus absconditus, ma aggiungendovi un ulteriore drammatico elemento: l’affermazione esplicita che il silenzio della divinità viene spesso vissuto dagli uomini come prova tangibile della sua inesistenza. Di più, il gesto stesso della negazione di Dio diventa di una banalità estrema, una sorta di beffa nella beffa; consiste, infatti, nel calpestare un’immagine, riducendo il Creatore ad un oggetto di scherno, al punto tale che Kichijiro, l’apostata compulsivo, può iterare più volte quell’atto, salvo poi ottenere il perdono a buon mercato attraverso la confessione. Personaggio centrale nell’economia del film, Kichijiro è un diretto discendente del Kikuchiyo de I Sette Samurai di Akira Kurosawa (il contadino guascone interpretato da Toshirō Mifune) ma, a ben vedere e restando all’interno della filmografia scorsesiana, egli non è altro che un’altra incarnazione dell’inaffidabile Johnny Boy interpretato da Robert De Niro nel già citato Mean Streets.
Umanissimo e dolente, questo splendido e infido giullare, questo Giuda che tradisce più per vizio che per reale corruzione d’animo, chiede ad un certo punto a Padre Rodrigues: “Che cosa può fare un uomo debole in un mondo come questo?”, domanda che rimbalza immediatamente fuori dallo schermo per raggiungere lo spettatore e trafiggerlo col più sensato e lucido dei dilemmi.
In questa interrogazione radicale sull’agire umano e sui diversi modi di rapportarsi alla fede, Silence finisce così per essere una potente parabola laica, un’opera aperta, sincera e personale in cui il regista newyorchese squaderna davanti allo spettatore i frutti di un’indomita ricerca spirituale senza suggerire alcuna verità di comodo né offrire una facile via di fuga. Messo di fronte alle sadiche e inenarrabili torture imposte ai cristiani, lo spettatore viene spinto a chiedersi se sia giusto mettere la propria incerta fede dinanzi a tutto, anche a costo di sacrificare vite umane, condannandole alle più atroci sofferenze. Quasi a volerci gettare lentamente, ma inesorabilmente, dentro la storia a condividere la Passione vissuta dal protagonista, Scorsese sceglie di rinunciare al ritmo sostenuto e frenetico di molti suoi film; la macchina da presa è meno mobile del solito quasi che il regista volesse mostrare tutto il suo ossequio per la materia trattata, limitando le “distrazioni acrobatiche” per mettersi il più possibile a livello e a disposizione dell’argomento.
In questo modo, attraverso una messinscena affidata alla forza delle immagini e ad inquadrature fisse e insistite, e servendosi in modo massiccio della Parola, il regista sembra voler creare una sorta di contraltare al silenzio della divinità. E nessun punto di vista viene risparmiato, compreso quello dei carnefici: in particolare, sulla bocca dell’Interprete giapponese di Padre Rodrigues viene messo un importante discorso sulla relatività delle credenze religiose e un atto di accusa contro la presunzione, tutta cristiana e occidentale, di possedere la “verità”.
Tra l’altro, nel suo lucido discorso sulla centralità della quest rispetto alla presunta necessità dell’apostolato e dell’evangelizzazione forzosa, Silence, concepito in anni di relativa pace religiosa (almeno in questa parte di mondo), diventa opera attualissima che getta la sua ombra lunga sul nuovo millennio mostrando la ferocia e la follia dei fondamentalismi. Mai come in questo caso, allora, il resto non può essere altro che silenzio.
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