A Lampedusa ogni volta sbarca “L’Isola sconosciuta”
“Un uomo andò a bussare alla porta del re e gli disse, Datemi una barca. La casa del re aveva molte altre porte, ma quella era la porta delle petizioni. Siccome il re passava tutto il tempo davanti alla porta degli ossequi (degli ossequi che rivolgevano a lui, beninteso) ogni volta che sentiva chiamare qualcuno da quella delle petizioni si fingeva distratto, e solo quando il risuonare continuo del battente di bronzo diventava, più che palese, chiassoso, togliendo la pace al vicinato (cominciavano tutti a mormorare, Ma che razza di re abbiamo noi, che non risponde), solo allora dava ordine al primo segretario di andare a informarsi su cosa mai volesse il postulante, che non c’era modo di far tacere”.
Inizia così una prosa di José Saramago, intitolata Il racconto dell’isola sconosciuta, pubblicata da una particolare edizione dell’Arcipelago Einaudi, con delle illustrazioni tratte dall’Atlante di Battista Agnese, opera conservata presso il Museo Correr di Venezia.
La storia dell’uomo desideroso di costruirsi una nave per andare a far visita all’isola “sconosciuta” è, con un’interpretazione postmoderna, un’allegoria delle vicende dell’isola di Lampedusa. Sia ben chiaro che si tratta di un’osservazione postuma, poiché Saramago non ha scritto il suo racconto per questo, ma a leggerlo per intero e con attenzione, alcuni dei suoi risvolti metaforici non sarebbero così lontani da quelli tragici e desolanti delle storie che giungono fino all’isola siciliana.
L’ippocampo dei media è ormai del tutto andato. Non si capisce bene perché più di duecento morti per uno sbarco prima risveglino emergenze e sensazionalismi e poi non siano trattati allo stesso modo se la tragedia si ripete. Non è successo una volta sola, non è successo due volte, non tre. Ne succedono abbastanza e in numero sufficiente, ahinoi, per porsi questo interrogativo senza risposta. È come se le stragi dei barconi una volta valessero tanto e altre volte meno. In fondo non è che un giocattolo, uno dei tanti, in mano agli strilloni di quest’epoca dove l’isteria è la voce del caos e il silenzio dimora laddove, forse, ci sarebbero molte più cose da dire, o probabilmente andrebbero dette quelle giuste. Beato chi le conosce.
La clandestinità è una voce del business. Lo è da qualche secolo. Se qualcuno non se ne fosse accorto, ricordiamogli che le tratte degli schiavi vanno avanti da mezzo millennio. Adesso qualcun altro vorrebbe convincerci che i viaggi di persone disperate siano un problema che riguardi una piccola parte di un piccolo paese al centro del Mediterraneo? O che il dramma si origini dalle oscure grinfie di organizzazioni criminali che lucrano nei paesi dai quali partono i barconi con queste persone a bordo? Magari c’è pure qualcuno, perché c’è, che crede che il problema sia nel topico geografico delle rotte percorse dai gommoni di questi diseredati.
Quelle persone fanno comodo all’economia, e non soltanto a quella delle organizzazioni criminali che le sfruttano. C’è veramente qualcuno che pensa che uno dei drammi più antichi della storia dell’uomo, la schiavitù, perché di una forma di schiavitù si tratta, stia davvero a cuore alla politica internazionale? I signori della guerra, i capi di governo, i dittatori, i magnati che sono alle spalle dei conflitti dei paesi da dove provengono queste persone, non sono gli stessi che fanno da interlocutori politici e finanziari di molti, se non di tutti, dei capi di stato e di governo dei paesi cosiddetti “civilizzati”?
Torniamo al nostro racconto. Forse è meglio.
Il “postulante” che vuole chiedere udienza a sua maestà affinché questi gli riconosca l’opportunità di costruirsi una nave per raggiungere l’isola sconosciuta, inizia un lungo dialogo con il regnante. A un certo punto:
“Datemi una barca, disse l’uomo.
E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, domandò il re.
Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, rispose l’uomo.
Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più. Sono tutte sulle carte.
Sulle carte geografiche ci sono solo le isole conosciute.
E qual è quest’isola sconosciuta di cui volete andare in cerca.
Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta”
Il dialogo tra il re e il postulante si fa sempre più serrato. L’uomo giunto a corte per chiedere una barca al re, a un certo punto, davanti alla spocchia e all’arroganza del sovrano, che gli rammenta di essere il padrone di tutte le navi, dice:
“Appartenete voi a loro, e non loro a voi.
Che volete dire, domandò il re, inquieto,
Che voi, senza le barche, non siete nulla e che loro, senza di voi, potranno sempre navigare”.
Il confronto tra il postulante e il re si fa sempre più acceso, al punto tale da richiamare l’attenzione degli altri postulanti, in attesa sulla porta delle petizioni, che iniziano a urlare a gran voce di concedere a costui la barca richiesta. Allora il re, per ristabilire l’ordine, chiede alla donna delle pulizia di chiamare una guardia. Il racconto dell’isola sconosciuta va così avanti, fino alla scoperta del sentimento nato tra coloro che fino a quel momento non si conoscevano. L’ignoto postulante troverà nell’amore della donna che avrebbe dovuto chiamare la guardia (lei che è stanca di pulire le barche del re), la compagnia per salpare verso il mare.
Quello che sembra solo un racconto d’amore (ma che conserva molti altri significati), descrive pure i desideri misteriosi di un uomo alla ricerca di una barca, i capricci e le angherie di un regnante che possiede nessuno sa quante imbarcazioni e l’assoluta, quanto incompresa necessità, di liberarsi dentro la più difficile delle facoltà umane. La fiducia tra chi non si conosce, nell’incontro avvenuto tra provenienze molto lontane. A ben pensarci, gli ingredienti metaforici di questa grande piaga mondiale che è l’approdo della disperazione presso chi non conosce fino in fondo la disperazione, e, se pur la conosce, crede che la propria sia la migliore (o peggiore) delle disperazioni possibili.
Sapete qual è la rivelazione più incredibile del racconto di Saramago? Ve lo svela il finale:
“Poi, poco dopo il sorgere del sole, l’uomo e la donna andarono a dipingere sulla prua dell’imbarcazione, da un lato e dall’altro, a lettere bianche, il nome che ancora bisognava dare alla caravella. Verso mezzogiorno, con la marea, L’Isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca di se stessa”.
I grandi spostamenti, i grandi desideri, quasi sempre al cospetto delle più grandi incomprensioni, perché annidati dentro gli anfratti più bui dell’intimità, non coincidono col mezzo per compierle, ma coi luoghi da raggiungere. Per il nostro postulante l’emergenza è quella che sia l’Isola a mettersi in viaggio per trovare un luogo ideale, non una nave. Forse, quei diseredati che affidano la loro vita a un viaggio, vogliono dire la stessa cosa. Non è una barca che si sposta, ma un luogo, affollato da secoli di storia.