Non ci si meravigli del papa, ma del Je suis collettivo
Solo alle religioni, alle loro dottrine, alle loro istituzioni è consentito di fare ingresso, con ogni mezzo, negli angoli più segreti del pensiero e del sentimento. Mai il contrario. Nessuno violi una religione. Cadrebbe la sua definizione. Che il Papa ammonisca sul divieto di oltrepassare la misura di questa violazione è normale. Non capisco la meraviglia intorno alle sue parole “Se uno mi offende la madre, gli do un pugno”. Al di là dei presunti conflitti con l’evangelica “altra guancia” (il conflitto non c’è perché sono due allegorie diverse), sarebbe stato sorprendente un’uscita diversa da parte del papa.
Zuurdeeg definisce “convenzionale” il linguaggio religioso, che non pretende di essere verificato, come quello della fisica, né di presentarsi come una dimostrazione su basi convenzionali come il discorso matematico (cit.). Con particolare riferimento al Corano (per le culture occidentali sarebbe un errore imperdonabile trascurare i punti di intersezione, numerosi, con le allegorie delle fonti coraniche) Federico Peirone afferma che le proposizioni del linguaggio coranico non aspirano alla dimostrazione e alla sperimentazione. L’unica intenzione è pretendere di essere credute. Nulla di nuovo o di diverso da ogni altra religione.
Ecco che l’uscita del papa è un breve manifesto di tutela della “garanzia” religiosa, davanti al rischio che qualunque azione di violazione possa turbare la sacralità semantica di una fede. Dall’interno religioso ogni tentativo esterno diventa minaccia, soprattutto per le religioni che, loro malgrado o a loro favore non possiamo stabilirlo con disinvoltura, hanno fatto ingresso nelle sovrastrutture laiche della società, anche attraverso la commistione civile che coniuga quotidianamente le applicazioni (talvolta di comodo) dell’adesione religiosa alla realtà superficiale e sbrigativa dell’esercizio spicciolo di tutto quanto con la propria religione entri in conflitto. Ma una religione, in quanto manifestazione integralista di un pensiero e di un sentimento, non si sottopone a sedimentazioni. Non ci sono precipitati da attendere quando si guarda alle religioni. Tutto resta nel tutto che esse stesse totalizzano. Da un punto di vista strettamente razionale, nessuna satira, nessuna pretesa, sia pur dotata di forza intellettiva, può setacciare la dignità di una religione.
Chi crede che questo sia un elemento di conservazione, o di ottusa abnegazione al potere intellettuale delle religioni, è debole nel suo stesso atteggiamento di rifiuto. Una religione, globalmente intesa, è tale se ottiene l’adesione, ovviamente incondizionata. È stato l’elemento compromissorio, scaturito da antiche scelte politiche (non soltanto delle istituzioni religiose), ad aver condizionato queste tendenze. Se la religione si fosse tenuta distante dalle realtà politiche, se avesse scelto invalicabili linee di separazione con le altre manifestazioni umane, non avrebbe goduto di un seguito planetario.
Del resto – senza timore di blasfemia -l’unica possibilità di testimonianza di dio è il diavolo. Il dio escogitato dall’uomo (e noi possiamo interrogarci solo sull’invenzione dell’uomo) può contare solo sul diavolo. Chi adopera con astuzia il potere sa infatti come farselo piacere, il diavolo. Dove la mettiamo la natura compromissoria dei condotti che tengono uniti l’interno e l’esterno della fede religiosa alla vita reale? Senza questa sottile forma di corruzione, niente di religioso sarebbe dentro la vita reale. L’ammonimento del papa, che, di fatto, condanna determinate forme di manifestazione del pensiero (nel contenuto, sia ben chiaro, per onestà va ricordato, non nella forma e nello strumento), diventa necessario per il Cattolicesimo. Probabilmente il papa avrebbe commesso un errore se avesse capovolto questa necessità.
Nessuna difesa all’autorità religiosa, ma alla dignità di un sentimento. Credervi è facoltà a disposizione di chiunque, ed è quanto di più nobilmente anarchico possa disporsi nel libero arbitrio di un uomo. Malatesta ha sovrapposto l’immagine religiosa a quella dello Stato, definendo quest’ultimo esistente solo se la gente ci crede. Che valga pure per le religioni è ovvio, ma è pericoloso alimentare il campionario di turbative a quell’equilibrio dove ribollono i contrasti di quella compromissione che ha fatto commistione di politica e di religione, di economia e di religione, di potere e di religione, di tutto e di religione. Attenzione a incauti ingressi. Questa è l’utilità della battuta papale.
Molto più preoccupante, invece, l’Io sono di massa (Je suis). Il noi è diventato una prima persona unica. Una delle espressioni più complesse e pericolose dell’espressione umana, “Io sono”, ha trovato la narcosi dentro una sommatoria emotiva che ha trasformato una frase in un brand mediatico, un rifugio per la moltitudine, in virtù di un dettato generale originatosi dentro la più totale faziosità dei mass media, che, così come hanno acceso i riflettori sopra i fatti di Parigi, allo stesso modo li hanno spenti su quelli della Nigeria. Eppure sono state entrambe delle rappresaglie a sfondo religioso. Per quanto ingenuo e comprensibile, l’io sono generale è risuonato maldestro e indecoroso, perché è caduto nella trappola del privilegio di un orrore a discapito di un altro. Del resto è quello che spesso avviene nel silenzio generale e nell’indifferenza senza pronomi al seguito.
Di cosa ha tenuto conto questo io sono? A quali identità si è appellato? Se non ci fosse stato il vile attentato alla redazione della rivista francese, quale io sarebbe stato speso per indossare i panni dell’indignazione davanti a forme integraliste che sono i partner finanziari dello stesso mondo che vorrebbe rimuoverle? Si è verificato l’ennesimo asservimento cerebrale alle tendenze dell’emotività artificiale del potere. Anche Gesù, come è scritto nel Vangelo di Luca, dice ai suoi discepoli “Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi”.
A proposito di io sono e di io possibili, probabilmente l’esergo più potente e generativo della storia della letteratura, ancor più del “In principio era il verbo” della Bibbia, è quello del Corano, dove nelle note alla Fatiha non dice io sono, ma “Ecco, io inizio”. Solo gli déi possono definirsi in quella prima persona che parla alle altre senza aprir bocca.