Daniza, che adesso se ne sta insieme ai miei due orsi
Alla piccola Alice
Forse sorprenderà, ma da bambino due cose mi hanno allevato alla sensibilità: gli storpi e gli orsi. Un orso in particolare. Nel 1988 esce un film che considero uno dei miei fondamenti educativi, del tutto personali, non so quanto efficaci, ma di sicuro fra quelli per me indimenticabili. L’orso (L’ours), di Jean Jacques Annaud.
La storia di un cucciolo di orso che, dopo la morte della madre rimasta uccisa dalla caduta di un masso, si ritrova solo e indifeso nei sentieri della montagna e nei luoghi desolati lungo le sponde di un fiume e tra le insidie a valle. Nel tentativo di procurarsi del cibo, alla disperata ricerca di miele, il piccolo orso s’imbatte in un grizzly adulto, da molti considerato tra le specie di orsi più feroci. Riconoscendo nel grizzly una sorta di figura paterna, il cucciolo tenta in tutti i modi di farselo amico, seguendolo ovunque, fino all’estenuante resistenza alle naturale volontà solitaria e inospitale del grande orso. Nel frattempo, il grizzly è braccato da due cacciatori, uno anziano e un altro più giovane. Quello più giovane riesce a colpirlo, ma senza ucciderlo. L’orso ferito si vendica assalendo uno dei due cavalli, ma non decide di attaccare i cacciatori, aspettando, probabilmente, un momento più propizio per consumare la sua vendetta.
Il momento arriva quando il giovane cacciatore, inerme perché senza fucile, si ritrova di fronte la sua preda, stavolta avvantaggiata dalla posizione e dal frangente. La preda diventa cacciatore e il cacciatore diventa preda. Il grizzly, dopo aver rugliato al cacciatore tutto il suo risentimento, decide miracolosamente di risparmiargli la vita, lasciando che il giovane bracconiere, che ormai ha imparato la lezione, continui il suo viaggio sulle montagne. Il piccolo orso, avendo perduto le tracce del grizzly, si ritrova a dover fronteggiare l’attacco di un pericoloso puma. Quasi ignaro e incosciente di non aver speranze e di essere destinato a una morte atroce, il cucciolo cerca di spaventare il puma, che, dapprima sicuro di avventarsi con facilità sul piccolo animale, inizia a indietreggiare impaurito e timoroso. Il grande grizzly è alle spalle del piccolo orso, salvo grazie all’intervento del suo nuovo amico. Il cucciolo non ha più la madre, ma la stessa sventura che lo ha sottratto alle cure amorevoli e indispensabili della figura materna, gli ha restituito la guida sicura del grande orso grizzly.
I due orsi, avvertendo l’avvicinarsi dell’inverno, si rintanano in una grotta per andare in letargo. La storia termina con una citazione di James Oliver Curwood, autore del romanzo The Grizzly King, da cui è tratto il film. “Esiste un’emozione più forte che quella di uccidere, quella di lasciar vivere”.
Un altro orso che, attraverso il cinema, ha segnato la mia prima giovinezza, è stato quello a lungo inseguito dal protagonista de Il posto dell’anima, film diretto da Riccardo Milani. Antonio, un operaio, poi licenziato, di una fabbrica di pneumatici, interpretato da Silvio Orlando, ignaro di essere malato di cancro, malattia probabilmente contratta durante i suoi anni in fabbrica, va alla continua ricerca di un orso, avvistato nel bosco di una piccola località abruzzese. Antonio, dibattuto tra le controverse vicende legate al lavoro perduto e alla sua vita sentimentale, non riesce a trovare l’orso al centro delle dicerie di paese. Di tanto in tanto, costringe anche la sua svogliata e riluttante compagna (Paola Cortellesi) a seguirlo nella ricerca disperata dell’animale durante le prime ore del mattino. L’orso si fa vivo soltanto alla fine, e non viene avvistato da Antonio, che non c’è più, perché il suo male se lo è portato via, ma dalla sua compagna che, all’alba di un mattino, col ricordo di Antonio fisso negli occhi, parte alla volta del bosco per avvistare l’animale a lungo cercato da Antonio. Per l’operaio l’orso ha rappresentato l’utopia di una vita migliore, per la sua giovane compagna l’orso è il bene di cui comprende l’incalcolabile valore soltanto dopo averlo perduto.
Di quelli come Antonio il mondo del lavoro ne ha avuti tanti, molti scomparsi perché chi di dovere non ha voluto considerarli con il loro reale valore. Proprio come gli orsi, che, come canta un verso dei nativi americani, si appoggiano sulle mani e aspettano il sorgere del sole.
A questa specie, alla quale appartengo e che così poco conosco, che con inquietante leggerezza si rallegra e ironizza sulla morte dei propri simili, che affronta senza conoscenza e senza cognizione i suoi mali peggiori, se fossi un orso, ricorderei quello di Annaud e quello di Antonio. Ma ce n’è anche un terzo che merita una menzione particolare, con l’unica differenza che quest’orso ha le “sembianze” di un uomo. Si chiama Sulo Karjalainen, un anziano fattore finlandese che, a pochi chilometri da Kuusamo, nella Finlandia settentrionale, vive prendendosi cura dei suoi amici orsi. Sulo è riuscito a incarnare il desiderio di John Wilmot. “Vorrei essere un orso, o tutto, tranne quell’animale vanitoso, così orgoglioso d’essere razionale”.