Robin Williams, lo spleen della modernità
Robin Williams è l’attore della gioia di vivere. Definizione sbrigativa? No, se si pensa bene a cosa sia la gioia di vivere. La gioia di vivere è una cosa pericolosa. Trattiene angosce e solitudini, senza mai rivelare un attimo di debolezza che confessi il suo sublime inganno. Il gioioso è una custodia di dolori e l’ultima delle sue intenzioni è quella di darlo a vedere. Del resto pure Beethoven ha detto che “i più eminenti afferrano la gioia attraverso la sofferenza”.
Robin Williams ha interpretato un campionario umano vasto e insostenibile, lungo un transito trasversale sulle sofferenze della modernità. La guerra, l’handicap, l’infanzia disagiata, la rinuncia, la sottrazione, l’insofferenza alle imposizioni morali e la malinconia hanno riempito l’armadio dei costumi di scena dell’attore statunitense, capace di rappresentare la mano del padre e l’abbraccio materno, la desistenza al capriccio e il coraggio del passaggio maturo, sempre libero dall’imitazione e dalla costrizione a rispondere presente all’appello dei “grandi”. La sua infanzia adulta ha educato la sensibilità di intere generazioni, sempre resistendo alle tentazioni di un tempo disseminato di trappole retoriche. La sua ribelle saggezza ha istruito al rifiuto e ha suggerito quelle teorie dell’ascolto che tanto mancano alle conversazioni di oggi.
Adrian Cronauer, John Keating, Jack Charles Powell e molti altri personaggi da lui interpretati hanno scolpito un codice aereo del sussurro, segnando parole meravigliose dentro un sorridente taccuino, uno spleen del tutto privato, capace di scovare sempre un’emozione salvifica in mezzo agli orrori del Vietnam, alle ingiustizie della rigida morale borghese, alla consapevolezza della brutale brevità della vita per il povero “Jack”, protagonista del film diretto da Francis Ford Coppola, dove Robin Williams interpreta un uomo affetto da una rara disfunzione genetica, costringendolo a invecchiare quattro volte rispetto al normale e riducendo sensibilmente la sua aspettativa di vita.
Nonostante a dieci anni Jack sembri un quarantenne, la madre decide di mandarlo a scuola, dove, dopo alcune difficoltà, riesce a farsi accettare da un gruppo di amici. Gli anni successivi lo conducono al diploma e a un’età, di appena diciassette anni, che lo fa sembrare un uomo molto invecchiato. Ed è proprio nel giorno della cerimonia dei diplomi che Jack tiene un commovente discorso:
“Non ho moltissimo tempo a mia disposizione. Sarò breve, come la mia vita. Lo so che giunti al termine di questa nostra vita tutti noi ci ritroviamo a ricordare i bei momenti e dimenticare quelli meno belli, e ci ritroviamo a pensare al futuro. Cominciamo a preoccuparci e pensare: “io che cosa farò? chissà dove sarò da qui a dieci anni?” Però io vi dico: “Ecco guardate me!” Vi prego, non preoccupatevi tanto, perché a nessuno di noi è dato soggiornare tanto su questa terra. La vita ci sfugge via e se per caso sarete depressi, alzate lo sguardo al cielo d’estate con le stelle sparpagliate nella notte vellutata, quando una stella cadente sfreccerà nell’oscurità della notte col suo bagliore, esprimete un desiderio e pensate a me. Fate che la vostra vita sia spettacolare. Io ci sono riuscito. Sono un adulto ormai”.
Parlare alla propria età, accordandosi con essa per vincere il tempo e riunire le proprie voci in un coro che traduca in entusiasmo il dolore dei tormenti. Una maniera per durare in eterno. Robin Williams, forse, ci è riuscito.