“Ritorno all’Avana”, Intervista a Laurent Cantet: Cuba e il suo mito

Nelle sale italiane esce Ritorno a L’Avana (Retour à Ithaque), l’ultimo film di Laurent Cantet, regista vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2008 con La classe (Entre les murs). Presentato all’ultimo Festival di Venezia dove ha vinto la sezione “Giornate degli Autori”, Ritorno a L’Avana racconta la storia di cinque amici cubani che decidono di trascorrere una serata insieme in seguito al ritorno nella capitale di uno di loro dopo sedici anni di esilio. Iniziata come una festa allegra, la serata si trasforma in un vero e proprio gioco al massacro e diventa anche il momento per una resa dei conti tra i cinque amici. Abbiamo incontrato il regista e discusso con lui del film.

Ritorno a L’Avana è il tuo secondo film girato e ambientato a Cuba dopo l’episodio di “7 Days in Havan”. Da dove nasce questo tuo interesse per la realtà e la situazione cubana?

Amo molto Cuba. Ogni volta che ci vado incontro delle persone straordinarie che mi accolgono con affetto e calore, che hanno tante cose da chiedermi e soprattutto da insegnarmi. Questo mi ha fatto capire nel corso degli anni che a Cuba è successo e sta succedendo qualcosa di essenziale che andava assolutamente raccontato. In particolare, mi sono interrogato sulla differenza tra le premesse e promesse iniziali e la loro mancata realizzazione. Devo aggiungere che la mia impressione, ogni volta che vado a Cuba, è che tutti siano davvero molto stanchi e che aspettino un cambiamento che sta avvenendo in maniera molto molto lenta, il che forse è anche la migliore soluzione. Infatti, molti temono che a Cuba possa avvenire lo stesso che avvenne in Unione Sovietica e la mafia americana sta aspettando di ritornare. Ci sono case che sono state restaurate per delle persone che aspettano di ritornare e occuparle. Insomma, si teme che la situazione possa esplodere. Devo anche dire che ci sono anche molte persone che si sentono legate ai vecchi ideali e che mantengono ancora intatta la speranza.

Perché questo titolo: “Retour à Ithaque”? [titolo originale del film]

Il titolo richiama un famoso mito epico. Cuba è un luogo che è stato capace di creare intorno a sé una sorta di aura mitologica, in particolare per le persone di sinistra. Così, insieme al grande scrittore cubano Leonardo Padura, che è stato un po’ anche il coordinatore di “7 Days in Havana”, abbiamo pensato ad un lungometraggio, ad un film con un soggetto più ampio che, partendo da questa immagine mitologica, provasse a raccontare l’attuale situazione.

Qual è stato il contributo di Padura rispetto al tuo per la realizzazione del film?

Padura ha avuto un ruolo essenziale per il film. Io avevo letto tutti i suoi libri e quindi siamo subito entrati in grande confidenza. A differenza di uno dei protagonisti del film, Padura non ha mai lasciato il Paese, pur criticandolo, e vive attualmente a Cuba dove gode di molto rispetto. Abbiamo costruito il film insieme, ma è stato lui che ha scritto i dialoghi del film, curando in un certo senso il ritmo del racconto. Naturalmente abbiamo lavorato a stretto contatto ma Padura ha dato un contributo fondamentale. Padura è un grande scrittore che ti consiglio di leggere.

Gli attori del film sono veramente straordinari. In che modo è avvenuta la loro scelta?

Sono tutti attori professionisti che a Cuba sono delle vere e proprie star. Li ho incontrati praticamente subito nel mio cammino, quando il film era ancora in fase di sceneggiatura e ho chiesto loro già di improvvisare dei dialoghi. Abbiamo lavorato molto insieme in questa fase con improvvisazioni, prove e facendo molte letture. Ma soprattutto abbiamo trascorso molto tempo insieme, chiacchierando molto. Quello che è molto importante è che la storia del film è un po’ anche la loro storia personale. La scintilla del film è nata dopo che ho incontrato alcuni di loro al termine dell’episodio di quindici minuti di “7 Days in Havana” e loro mi hanno però detto che quindici minuti non erano sufficienti perché si trattava delle loro vite. Tre di loro si conoscono da anni, dai tempi dell’Università, e infatti si intendevano perfettamente sul set. A parte il fatto che sono degli attori magnifici.

C’era una cosa che mi interessava molto. Due delle cose per cui Cuba viene lodata sono il sistema di istruzione e quello sanitario. Nel film, però, sembra che essi siano dei miti che vengano un po’ sfatati. In una scena c’è una coppia che si insulta e uno dei cinque amici commenta: “Ecco il paese più colto del mondo…”. In un’altra scena il protagonista dice di avere mandato dei soldi alla moglie lontana per farla curare, negando implicitamente il fatto che si è sempre detto che a Cuba la sanità è completamente gratuita per tutti.

Per quanto concerne l’istruzione purtroppo molti mi dicono che c’è una controtendenza rispetto al passato. Molte persone vanno via e, tra quelli che restano, quasi nessuno vuole fare l’insegnante a causa degli stipendi molto bassi. Per quel che concerne la questione sanitaria, il film si riferisce esclusivamente al cosiddetto “periodo speciale”, quello cioè iniziato alla fine del 1989, con il crollo dell’Unione Sovietica. Non c’era da parte mia nessuna volontà di negare questa verità.

In uno degli episodi di “7 Days in Havana”, quello diretto da Gaspar Noé, si assiste ad una sorta di ritmo magico per purificare due ragazze. Nel tuo film viene fuori che uno dei personaggi del film, l’oftalmologa, si rivolge ad uno stregone. Mi interessava chiederti qualcosa su questo aspetto “magico” di Cuba.

La presenza dei riti magici è un antico retaggio di Cuba. Sebbene la Rivoluzione li abbia proibiti essi ancora persistono e vengono fatti di nascosto. È un tipo di rito sacro che ha avuto una certa penetrazione nel Paese. Il fatto che uno dei personaggi del film ricerchi certe pratiche era anche un modo per dire che, sebbene in misura minore, questo retaggio ha coinvolto anche persone più colte.

Per quanto riguarda le riprese del film, mi sembra che in esso vi sia una forte impostazione teatrale. La terrazza dove si svolge la quasi totalità del racconto somiglia ad una sorta di palcoscenico e nel film il dialogo vi ha un ruolo essenziale.

Sì, in realtà però c’è da aggiungere che talvolta ci liberiamo di questo aspetto teatrale attraverso un abbondante utilizzo di primi piani dove gli attori sono molto bravi a trasmettere le loro emozioni attraverso il loro sguardo e, più in generale, il loro corpo. L’abbondanza di campi-controcampi era dettata da una serie di esigenze pratiche e soprattutto dal ritmo che volevo imprimere al film ed è comunque una scelta che ho fatto sin dall’inizio per concentrarmi maggiormente sulle storie dei personaggi alle quali non ho voluto sovrapporre nessun particolare artificio tecnico. La location mi è piaciuta molto perché è un luogo fisico ma anche metaforico perché una terrazza si ttova in altro ed è quindi la posizione che ti consente di vedere tutto.

Qual è stata la reazione delle autorità cubane al film? Pensi che sarà possibile che esso si veda a Cuba?

Pochi cubani hanno visto il film a Venezia, Toronto e San Sebastian. Quanto alle autorità, non abbiamo reazioni o dichiarazioni ufficiali però il Direttore dell’“Havana Film Festival”, che è venuto fuori dalla proiezione, era molto commosso e mi ha abbracciato piangendo Mi ha detto: “Non ti prometto niente se non il mio impegno che farò di tutto affinché questo film possa essere visto a Cuba”. Devo però aggiungere che le autorità cubane non ci hanno ostacolato nella realizzazione del film, anzi il Centro Cinematografico Cubano ha supportato il film chiedendo però di non comparire nei “credits” del film, a dimostrazione che probabilmente è molto forte, a Cuba, il desiderio di riflettere su sé stessi.

 

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