“Il cacciatore” di Michael Cimino: la morte di una nazione
MIKE: Uccidere o morire in montagna o nel Vietnam è esattamente la stessa cosa. Ma deve succedere lealmente.
NICK: Come? Un colpo solo?
MIKE: Un colpo solo.
NICK: Io non ci credo più tanto a questa storia del colpo solo, Mike.
MIKE: Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo. Il cervo non ha il fucile: deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale.
La New Hollywood è stato un momento irripetibile nella storia del cinema mondiale, e uno dei periodi più gloriosi della cinematografia statunitense. Senza essere un vero movimento, come la Nouvelle Vague o il Free Cinema inglese, la New Hollywood può essere forse definita come una sorta di terapia di gruppo di un intero Paese che, uscito vincitore dalla seconda guerra mondiale, stava provando ad esportare il suo Sogno in tutto il mondo, eccezion fatta per le nazioni del blocco comunista, irreggimentate dallo storico avversario sovietico. Ma, per la nazione a stelle e strisce, il risveglio fu assai brusco. A partire dai “ribelli senza causa” di Nicholas Ray (Gioventù bruciata, uscito proprio nell’anno che segna l’inizio della guerra del Vietnam) fino al “cinema dei reduci” che indagava sulle conseguenze fisiche e psichiche di cui furono vittime i giovani americani in seguito all’invasione del Paese dei vietcong (Taxi Driver di Martin Scorsese e Tornando a casa di Hal Ashby, per citare un paio tra i titoli più famosi) passando per la rivisitazione della propria Storia operata dai western “revisionisti” (Soldato blu di Ralph Nelson, Piccolo grande uomo di Arthur Penn), il cinema statunitense mostra come a regnare siano il malessere, il malcontento, la messa in discussione degli ideali di un Paese che, con scarso senso critico, si è sempre autodefinito “il più generoso del mondo” e che si vedeva ora costretto a elaborare eventi traumatici come gli omicidi di John F. Kennedy, di suo fratello Robert e Martin Luther King, e scandali politiici come il caso Watergate.
Nel 1978 escono il già citato Tornando a casa e Il cacciatore di Michael Cimino, l’anno dopo sarà la volta di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Al momento della realizzazione di The Deer Hunter, come recita il titolo originale, Cimino è un cineasta vicino alla quarantina che ha al suo attivo un solo, ottimo film, Una calibro 20 per lo specialista (Thundebolt and Lightfoot), interpretato da Jeff Bridges e Clint Eastwood. Quest’ultimo inizialmente avrebbe dovuto dirigere la pellicola e cedette poi la regia al promettente collega.
In quel fatiidico 1978, la guerra del Vietnam si è conclusa da tre anni, gli americani si stanno leccando le ferite e stanno facendo l’analisi della portata del “disastro”, termine maggiormente utilizzato per riassumere quella disgraziata esperienza. Il film di Cimino è un grande affresco ispirato al ventennale conflitto combattuto in terra asiatica e viene oggi unanimemente considerato un capolavoro. Tuttavia bisogna ricordare che, alla sua uscit,a le cose andarono molto diversamente. La critica italiana, allora molto incline a distinzioni nette e ideologicamente marcate, lo tacciò di fascismo. Non molto meglio andò nel resto d’Europa, al punto che il film fu ritirato dalla Berlinale perché considerato sciovinista, reazionario, persino razzista per il modo in cui venivano rappresentati i vietcong. Per protesta, la delegazione sovietica abbandonò indignata il Festival. Interessante notare come la sequenza più controversa sia proprio quella oggi maggiormente ricordata, cioè la tortura dei tre protagonisti fatti prigionieri dai “gialli”, quando i tre giovani amici (interpreati da Robert De Niro, Christopher Walken e John Savage) sono costretti a sfidarsi nel macabro gioco della roulette russa.
Sono polemiche che oggi potrebbero fare quasi sorridere (ma a denti stretti, se si riflette su come talvolta la cecità ideologica soffochi l’intelligenza). In realtà Il cacciatore, perfettamente diviso in tre parti (ambientate prima, durante e dopo il conflitto), ebbe lo straordinario pregio di descrivere lo sconvolgimento delle vite di tre ragazzi statunitensi, figli di immigrati ucraini e di basso ceto sociale, nel passaggio da una vita allegra e spensierata, divisa tra l’officina, il bar, la famiglia e l’hobby della caccia, all’inferno della guerra, sino al ritorno a casa, momento a partire dal quale nessuno di loro sarà più la stessa persona.
All’epoca, i giovani americani avevano solo tre opzioni: partire volontari per il fronte, lasciare il Paese o aspettare di essere richiamati. L’angoscia e la suspense erano terribili e il film riassumeva questo sentimento attraverso l’azzeccata immagine del “colpo solo” (riassunta nel dialogo riportato in esergo), la quale più che metafora del suicidio di una nazione, diventava un mezzo per drammatizzare l’elemento casuale che sussiste in qualsiasi guerra. Infatti, l’arbitrarietà dell’uscita del proiettile dalla canna della pistola è assolutamente simile alla (non)logica che in guerra decreta la morte di un uomo piuttosto che di un altro per una questione meramente accidentale, una situazione assurda e ingiusta, icasticamente sintetizzata dall’immagine della lealtà del “colpo solo” con cui abbattere un cervo, per forza di cose disarmato.
Un’altra sequenza oggetto di fraintendimento fu il canto finale “God Bless America” intonato dall’attore George Dzundza, l’amico barista, cui tutti gli amici vanno dietro a ruota mentre sono riuniti per il funerale di Nick/Christopher Walken che a Saigon ha trovato la morte che aveva cercato con accanimento. Più che un’impossibile celebrazione della Patria (impossibile perché viene alla fine di una serie di orrori), quella sequenza appare come il modo patetico in cui alcune persone incapaci di discussioni particolarmente elaborate e zittite dall’evento tragico che li ha coinvolti, tentano di elaborare un sentimento comune provando a rinsaldare l’amicizia che li lega intonando un inno che viene di solito ripetuto durante altri “riti collettivi” come le partite di baseball o di pallacanestro.
Contemporaneo, ma appena più anziano dei cosiddetti “movie brats” del cinema americano (Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, George Lucas, Steven Spielberg), Cimino raggiunse la fama leggermente più tardi rispetto agli illustri colleghi (Coppola e Scorsese avevano già vinto l’Oscar, la Palma d’oro o entrambi i premi, Lucas e Spielberg erano reduci rispettivamente dai successi del primo Star Wars e de Lo squalo) conquistando con questo film cinque Oscar, tra cui quelli per il miglior film e per la miglior regia, e avviandosi ad una promettente carriera di regista di successo, pupillo delle major.
Purtroppo, al successo de Il cacciatore seguì il flop clamoroso del meraviglioso e sfortunato I cancelli del cielo, che collocò questo grande ribelle della settima arte nella casella degli “indesiderabili” delle grandi case di produzione.
La United Artists, sull’onda del film oscarizzato, aveva concesso a Cimino un budget di quaranta milioni di dollari (cifra enorme a quell’epoca) ma il film ne ricavò soltanto due spingendo la storica casa di produzione nelle grinfie della MGM. Eppure questo western storico sulla lotta di classe, che ancor oggi suscita giudizi contrastanti, meriterebbe un’attenta rivalutazione, ed è probabilmente persino superiore (nella sua versione integrale) alla pellicola sul Vietmam. Cimino è stato uno dei cineasti più sensibili alla lezione cinematografica del pioniere David Wark Griffith, dal quale però lo separa l’approccio critico e libero nei confronti della materia. Infatti, il film racconta una pagina poco nota della storia USA che ebbe luogo alla fine dell’Ottocento: un gruppo di potenti proprietari terrieri che si servirono di eserciti mercenari per stroncare nel sangue la rivolta dei contadini poveri immigrati, un altro tassello di storia patria che vedeva come vittima le minoranze e faceva a pezzi quel che restava del Sogno Americano: la nazione era ormai nata ed era possente ma anche incline a mandare al macello una parte per favorirne un’altra.
I cancelli del cielo è un capolavoro, il canto del cigno di una stagione cinematografica irripetibile ma purtroppo finì ancora una volta nel tritacarne politico, accusato questa volta di marxismo (parola impronunciabile negli USA): la critica lo fece a pezzi silurando il talento di un cineasta che ha sempre cercato ostinatamente di tenersi in disparte dalle etichette e al quale va riconosciuto l’onore delle armi. E molto di più.
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