“1984” di Michael Radford: cose che verranno (o che sono già arrivate)

Non possono entrare dentro di te. Se pensi che
restare umani valga la pena a qualunque costo,
anche quando non si ottiene alcun risultato,
allora li hai sconfitti.

George Orwell, 1984

Diretto, naturalmente nel 1984, da Michael Radford, autore britannico nato a Nuova Delhi e noto al pubblico italiano soprattutto per Il Postino (1994) con Massimo Troisi1984 è la seconda trasposizione del capolavoro di George Orwell pubblicato nel 1948, ed è stato presentato al Torino Film Festival nell’ambito della seconda parte della rassegna “Cose che verranno” (la prima aveva avuto luogo durante la scorsa edizione). Il primo adattamento era stato girato da Michael Anderson e, in italiano, si intitolava curiosamente Nel 2000 non sorge il sole, quasi che i distributori nostrani avessero deciso, inserendo quella data, di portarsi avanti con il lavoro.

Il regista avrebbe voluto utilizzare il bianco e nero, scelta che sarebbe stata probabilmente felice ma che venne purtroppo censurata dalla produzione. Così Radford e il direttore della fotografia Roger Deakins decisero di ricorrere, limitatamente per i video di propaganda che si vedono in molte scene, ad un particolare procedimento di sviluppo delle pellicola a colori, denominato Bleach bypass. Come buona parte degli adattamenti di opere letterarie molto amate, la pellicola di Radford non ha goduto di grossissima fortuna critica, pur aggiudicandosi nel 1984 il premio come migliore film britannico dell’anno, riconoscimento conferito dal quotidiano Evening Standard.

Tuttavia, sebbene si limiti tutto sommato ad una “illustrazione” del romanzo, prendendosi solo pochissime libertà poco rilevanti e praticamente nessun rischio (e non possiamo fare a meno di pensare, a questo punto, cosa sarebbe diventata l’incandescente materia orwelliana nella mani, ad esempio, di David Cronenberg), il film risulta molto efficace per la sua capacità di cogliere perfettamente lo spirito del romanzo e ricrearne l’ambientazione. In particolare, nel mostrare, almeno per quanto concerne gli esterni, i due ambienti differenti e contrapposti costituiti dal cuore di Oceania e dalle zone in cui soggiornano i proletari in maniera non dissimile, quasi fossero in continuità l’uno con l’altro, il film abbandona i territori della fantascienza distopica per farsi metafora potente dell’Inghilterra thatcheriana, un Paese dove il centro e la periferia, pur lontani e distinti, sono coinvolti dalla stessa distruzione e uniformati dallo stesso sfacelo.

Paradigmatica, in questo senso, la ricerca clandestina di merce nella cosiddetta Zona Uno da parte del protagonista del romanzo (e del film) Winston Smith, mirabilmente interpretato da John Hurt, attore la cui magnificenza non potrà mai essere sottolineata a sufficienza. Il grande attore inglese imprime infatti a Winston la giusta dose di rassegnazione e malinconia, ed è capace di regalare grandi emozioni semplicemente con uno sguardo o con il fremito di un labbro. Da segnalare, inoltre, la grande prova di Richard Burton nel ruolo dell’antagonista O’Brien: 1984 fu anche l’ultimo film dell’attore gallese, che morì pochi mesi dopo e che viene ricordato al termine del film con una commovente didascalia.

Per quanto concerne le altre opere passate in questi giorni al Festival, non sono mancate ancora una volta delusioni e scoperte: tra le prime il documentario Attaque della regista franco-israeliana Carmit Harash, che proprio l’anno scorso aveva presentato invece l’ottimo Où est la guerre Voyage au Groenland, secondo dei film presenti in questa edizione del bravo cineasta francese Sébastien Betbeder. Tra le opere più interessanti, invece, due film della bella sezione “Onde”: The Impossible Picture dell’austriaca Sandra Wollner, e Muito Romantico della coppia brasiliana (ma trapiantata a Berlino) formata da Melissa Dullius e Gustavo Jahn, due lavori in cui lo sperimentalismo si sposa perfettamente con la narrazione. Da ricordare, infine, l’interessantissimo Turn LeftTurn Right di Douglas Seok (tra i migliori del concorso Torino 34), ambientato in Cambogia e diretto da un regista statunitense che vive in Corea del Sud. Ennesima riprova, qualora ce ne fosse bisogno, che in questi giorni a Torino transita il mondo.

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