“Segreti di Stato” di Paolo Benvenuti: romanzo di una strage

“Lo Stato siamo noi” ripetono, calpestando di fatto l’insegnamento di Piero Calamandrei, le solite litanie buoniste che, a conti fatti, non fanno altro che buggerarci. D’altra parte, se questa affermazione corrispondesse a verità, la stessa espressione “segreto di Stato”, suonerebbe necessariamente ossimorica. Infatti, se lo Stato è una cosa che ci appartiene, anzi se “siamo Stato noi”, come scherzerebbe Alessandro Bergonzoni, che senso avrebbe nascondere qualcosa a noi stessi? Infatti, in quei documenti ci sono sicuramente i nostri drammi ma noi no, noi invece non ci siamo.

Da “Segreti di Stato”

Il quinto lungometraggio di Paolo Benvenuti, eterno outsider del cinema italiano, autore eretico e animato da una vigorosa e ben direzionata vis polemica, ci porta dentro la prima di una serie di stragi che hanno insudiciato l’Italia post-fascista: il massacro avvenuto il 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra, del quale oggi ricorre il settantesimo anniversario. Portella fu il primo evento del dopoguerra in cui lo Stato agì in maniera eversiva, scaricando poi la colpa su altri. Che cosa avvenne quel giorno, secondo la documentata ricostruzione che ne fa Segreti di Stato?

Quel giorno, durante una manifestazione che doveva concludersi con il comizio del leader comunista Girolamo Li Causi, furono trucidate 11 persone e una cinquantina rimasero ferite (alcune di esse morirono poco dopo) a causa di un agguato per il quale furono accusati e condannati il celebre bandito Salvatore Giuliano e la sua banda. Dedicato al grande Danilo Dolci, il film di Benvenuti ha la traiettoria di una sassata e utilizza fotografie, filmati, disegni e persino plastici in legno per condurre lo spettatore alla scoperta di una verità alternativa sull’eccidio, fino a suggerire la tesi che esso costituisca il primo capitolo del romanzo nero (in tutti i sensi) della cosiddetta “strategia della tensione”, fenomeno che darà prova di sé soprattutto tra la fine degli anni ’60 e fino al 1980, con la strage alla stazione di Bologna (era il 2 agosto).

Utilizzando il metodo socratico, basato su domande e risposte e sulla progressiva esclusione delle ipotesi confutabili e infondate, Benvenuti e i suoi co-sceneggiatori Paola Baroni e Mario J. Cereghino ipotizzano che la genesi della strage vada ricercata nel mortale intreccio di interessi che in quegli anni coinvolse tutti i maggiori rappresentanti del Potere: ministri e politici democristiani, mafiosi, banditi, fascisti, Chiesa e servizi segreti americani, che, con la scusa dell’anti-comunismo, strinsero uno scellerato patto per soffocare ogni anelito del popolo alla libertà e ogni suo tentativo di autodeterminazione.

Il luogo della strage viene rappresentato dal regista come una sorta di set cinematografico, con relativi sopralluoghi, sebbene postumi, ed in cui tutti i partecipanti al perverso piano di destabilizzazione degli equlibri democratici hanno ciascuno un ruolo ben determinato, attori e comparse (qualcuno di essi inconsapevoli) di uno dei tanti horror film del secondo dopoguerra italiano. Difatti, nella scena clou del film (del quale si può vedere una clip in calce a questo contributo), il personaggio del Professore, interpretato dal bravissimo attore e doppiatore Sergio Graziani, presenta all’avvocato di Gaspare Pisciotta il “gioco della Storia d’Italia”, costruendo un possibile filo di Arianna che aiuti a districarsi nel tortuoso labirinto ordito per l’appunto, come i due uomini riconoscono, da una “grande regia”.

Quel filo che consente di poter affermare ancora una volta, con indomita dignità ma anche con la solita amarezza di conoscere le cose ma – come scrisse Pier Paolo Pasolini – di non avere mai le prove.

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