“Belluscone – una storia siciliana” di Franco Maresco: i nuovi mostri
– Cos’è la ficcologia?
– Quando una fa bunga bunga
Io carabiniere non ci sono, perché sono una degna persona.
Da Belluscone – una storia siciliana
Il film racconta il tentativo, destinato a naufragare, da parte di Franco Maresco di descrivere il rapporto tra Silvio Berlusconi e la Sicilia, attraverso l’incontro con il manager di cantanti neomelodici Ciccio Mira, con due dei cantanti più in auge del suo comparto, il napoletano Vittorio Ricciardi ed il siculo Salvatore De Castro in arte Erik, autore della canzone “Vorrei conoscere Berlusconi”, con il sodale di sempre Marcello Dell’Utri e molti rappresentanti del popolo siciliano. Ad un certo punto, Franco Maresco risulta introvabile e toccherà a Tatti Sanguineti, critico e storico del cinema, andare alla ricerca dell’amico, da lui definito il regista più “iellato” della storia.
Dopo un sodalizio durato più di vent’anni, i cui frutti principali sono stati la trasmissione televisiva “Cinico TV” e quattro lungometraggi per il cinema (Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte, Il ritorno di Cagliostro, Come inguaiammo il cinema italiano – la vera storia di Franco e Ciccio), Franco Maresco e Daniele Ciprì hanno preso ciascuno la sua strada. Ma mentre le avventure dietro la macchina da presa di Ciprì (il modesto È stato il figlio e la commediaccia La buca) sono risultate poco convincenti e tutto sommato piuttosto ortodosse, il cinema di Franco Maresco ha mantenuto l’impronta delle origini, ostinatamente fuori dagli schemi (e purtroppo talvolta anche dagli schermi, data l’attenzione scarsa o nulla data ai suoi film). Infatti, egli è andato sempre alla ricerca di vicende umane con al centro personaggi talentuosi e sublimemente perdenti, splendidi marginali, destinati per volontà o per temperamento ad entrare nell’oblio. È questo il caso del musicista Tony Scott, raccontato da Maresco in quel gioiello sommerso che è Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista di jazz (2010), e del conterraneo Franco Scaldati, drammaturgo palermitano cui è dedicato Gli uomini di questa città io non li conosco (2015), ad oggi l’ultima fatica del regista.
In mezzo a questi due documentari, c’è stato spazio per Belluscone – una storia siciliana, vincitore del Gran Premio della Giuria nella sezione “Orizzonti” alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2014. Oggetto inafferrabile e di difficile catalogazione (a metà strada tra il documentario e il film d’inchiesta), Belluscone è un viaggio nella Sicilia popolare e iper-berlusconiana, fortemente nostalgica della mafia, quella fatta da “brave persone”, e della Democrazia Cristiana, grazie alla quale “si mangiava un po’ tutti”. Eppure il film di Maresco, opera dalla difficilissima gestazione (alcuni dei problemi raccontati nel film sono reali), non è un atto d’accusa contro i siciliani: tra le righe è fin troppo facile leggere nella storia di questo film “da farsi” la consapevolezza che la Sicilia è terra che lo Stato ha da sempre appaltato alla mafia, sin dai tempi di Portella della Ginestra. Non scandalizzi, quindi, che molti siciliani si sentano offesi al sentirsi chiamare “carabinieri” e che Ciccio Mira (persona/personaggio indimenticabile) affermi senza vergogna che, se un suo figlio volesse arruolarsi nell’Arma, lui lo “metterebbe via di casa”. Non scandalizzi neppure la fiducia di molti isolani nell’uomo di Arcore, la conoscenza del quale viene paragonata dal cantante Erik alla vincita della lotteria, capace di infilarsi con astuzia in un vuoto che lo Stato non ha mai voluto e saputo colmare.
La Sicilia descritta da Belluscone è quindi una sineddoche dell’Italia (o almeno di una sua parte): superficiale e gretta, quasi ostinatamente fiera della sua incredibile ignoranza, priva di vergogna e di pudore, come si vede nella fondamentale scena finale in cui una serie di interviste ad alcuni giovani della classe borghese rivela la loro avvilente pochezza e la loro continuità con il mondo dei padri. Per questa ragione, Belluscone resta una delle opere più dirompenti del cinema italiano più recente, una panoramica ironica e a tratti esilarante, ma che si illumina improvvisamente di una luce sinistra, capace di far sentire, dietro la maschera comica, l’amarezza ed il dolore di chi osserva un Paese dominato da freaks.
In questa carrellata di novelli mostri italioti scorrono cantanti neomelodici tatuati o in canottiera, impresari improbabili, individui che inneggiano all’omertà, politici con giubbetto di pelle ed accento fiorentino convinti che sia giusto saper parlare il linguaggio dei “zòvani”. È questo il Paese che stiamo ereditando o lasciando in eredità – sembra dirci Maresco – quello dove il Presidente del Consiglio si veste come Fonzie per presenziare ad un mediocre show televisivo e dove è importante conoscere Ficarra & Picone ma non si conosce il giorno in cui sono morti Falcone e Borsellino, e dove l’ignoranza cosmica, la mancanza di memoria e lo spregio verso la cultura sono quasi elette a virtù.
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