“Ciao maschio” di Marco Ferreri: sul pianeta delle scimmie
“Stai attento, Luigi: i barbari sono alle porte”
“E chi l’ha detto che i barbari sono peggiori dei Romani?”
Da Ciao maschio
Ne Il Pianeta delle scimmie (1968) di Franklin J. Schaffner il cosmonauta George Taylor, interpretato da Charlton Heston, tentava di fuggire via da quello strano posto in cui era capitato, lontano anni luce dal pianeta Terra, dove gli esseri umani erano sotto la schiavitù di scimmie antropomorfe dotate di un intelletto pari a quello degli uomini. Nel finale del film la visione dei ruderi della Statua della Libertà rivelava allo scienziato la sconvolgente verità: la sua navicella spaziale non si era arenata su un altro pianeta del sistema solare ma sulla Terra stessa, come essa si presenterà agli occhi degli uomini tra qualche migliaio di anni, in mezzo ai detriti di una civiltà (letteralmente) sepolta.
Ciao Maschio di Marco Ferreri, Premio Speciale della Giuria a Cannes nel 1978, realizzato esattamente dieci anni dopo il film di Schaffner, è ambientato proprio a New York, descritta come una metropoli anonima e allucinante, spettrale e asettica, “come vista dall’oblò di un’astronave”, secondo l’azzeccata definizione che ne diede il grande critico Morando Morandini. Icona e simbolo del mondo occidentale, la Grande Mela sembra racchiudere in sé tutti i prodromi del disfacimento e del collasso di un’intera civiltà, e la sua immagine nel film rivela in maniera lucida e perentoria il disastro politico della creazione delle periferie, veri e propri deserti collocati ai margini delle città.
Sulla spiaggia di Manhattan, distesa in tutta la sua lunghezza, giace l’enorme carcassa di King Kong, simbolo nel simbolo, mito crollato dalle cime dell’Empire State Building, e dietro la cui enorme mole si staglia lo “skyline” di New York in tutta la sua prepotente verticalità (comprese le Twin Towers, a quel tempo “giovani” di cinque anni). Questa immagine così prepotentemente icastica non può non far pensare ad una sorta di doppio rovesciato delle sequenze iniziali di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, quelle relative alla cosiddetta “alba dell’uomo”. In 2001 il monolito nero compariva davanti agli ominidi kubrickiani ed essi, ritti davanti a quella misteriosa apparizione, lo toccavano ricevendone in dono l’intelligenza. Nel film di Ferreri i grattacieli della città, che condividono col monolito la stessa verticalità, fanno da sfondo ad un gorilla disteso sulla spiaggia, esanime e con lo sguardo rivolto altrove: dall’alba dell’uomo siamo ora passati al suo tramonto.
Punto di incontro e di snodo dell’umanità derelitta di Ciao maschio è il Museo delle Cere dell’Antica Roma, gestito da Flaxman, personaggio viscido oltre misura, che attira tutte le antipatie dello spettatore sin dal suo primo ingresso in scena. Flaxman appare come il perfetto rappresentante di un mondo intellettuale fasullo ed ipocrita che tende ad imbalsamare il passato, ad impagliarlo, a trasformare la Storia e la conoscenza in “cosa” priva di vita. Egli è la personificazione di una cultura sclerotizzata e ridotta a mero simulacro, esclusivo appannaggio di questo lugubre sacerdote che la utilizza a proprio piacimento, sino a farne luogo privilegiato, torre d’avorio in cui rinchiudersi per abbandonarsi all’erotismo (la fellatio con la segretaria) e persino all’autoerotismo davanti alla statua di Cleopatra.
Ciao maschio, opera nichilista e disperata ma non priva qua e là di umorismo nero e di una sua greve ilarità, segna la definitiva disfatta del maschio occidentale, ideale prosecuzione del discorso iniziato con l’epocale La grande abbuffata (1973) e L’ultima donna (1976), e che aveva avuto una sorta di doppio prologo negli apocalittici Dillinger è morto e Il seme dell’uomo (1969). Rinchiuso in una situazione senza via d’uscita (ad accentuare questa sensazione, significativamente il film mostra più volte i personaggi muoversi dietro una rete-recinto), soggiogato dall’avanzata femminile, simbolicamente privato del fallo (la scena dello stupro) e persino dell’uso della parola, cui sostituisce la ridicola abitudine di soffiare in un fischietto, Lafayette, il personaggio interpretato da Gèrard Depardieu, è un essere che si sta sbriciolando. Allo stesso modo New York, centro economico e finanziario del mondo, topos per eccellenza del Sogno Americano, è ridotta nel film ad una sorta di terra desolata, all’interno della quale si aggirano uomini misteriosi in tuta bianca e maschera antigas, e in cui il protagonista vaga senza meta, incontrando sulla sua strada nient’altro che topi e detriti, e trascorrendo il tempo malinconicamente in compagnia di reietti e outsider. Tra essi, l’anarchico Luigi (Marcello Mastroianni), altro reduce del passato, patetico e impotente, cui si deve però più di un momento di lucidità e consapevolezza, come quando urla davanti a Flaxman: “È tempo di distruggere l’immagine dell’uomo”.
Anche l’ominide Lafayette sembra avere un ultimo significativo sussulto quando decide di adottare uno scimpanzé, trovato accanto al corpo di King Kong, nei confronti del quale si comporta più come una madre che come un padre, accudendolo amorevolmente, ignorando il cinico consiglio di Flaxman di abbandonarlo perché gli darà solo problemi. Tuttavia, anche questo insolito binomio del Bello e della Bestia è votato allo scacco: il piccolo Cornelius viene divorato dai topi mentre Lafayette, perduto il ruolo di “mammo”, si rifiuta di assumere quelli più logici di padre quando apprende la notizia della gravidanza della sua compagna Angelica (Abigail Clayton, a quel tempo attrice di cinema porno). Costei non può che abbandonarlo, fuggendo a bordo della prima auto di passaggio. L’ultima immagine del film ce la mostra nuda sulla spiaggia, con in mano un grappolo d’uva, in compagnia del suo bambino ormai cresciuto che gioca nel mare. Per fortuna si tratta di una femmina.
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