Un garofano non è una rosa
Uno dei libri più letti sul finire degli anni ’70, fu “Avere o essere?” dello psicoanalista e sociologo tedesco Erich Fromm, già noto per il suo “Fuga dalla libertà”. Quando lessi il libro, erano passati ormai quasi quindici anni dalla sua prima edizione e non sapevo nulla di Fromm, dei suoi studi e ricerche. Venni a conoscenza del testo, in modo alquanto singolare, grazie a una goliardata da studenti.
Non godo di buona memoria, ma delle scuole superiori, l’attuale scuola secondaria di secondo grado, conservo ricordi nitidi come se più di venti anni non fossero passati. Avevo un professore di Italiano di quelli «non voli una mosca che Io non voglia». Curatore e autore di molti testi dedicati a Giacomo Leopardi e socialista convinto.
Frequentavo il quarto anno quando, in piena era Tangentopoli, iniziò il processo al socialista Bettino Craxi. Un amico di classe, sfruttando le sue capacità artistiche e umoristiche, disegnò il professore pieno di bende, cerotti e ingessature, con sotto il braccio destro una stampella e nella mano sinistra un garofano, emblema del Partito Socialista Italiano dell’epoca, con un solo petalo nell’atto di cadere. La vignetta era stata disegnata per ingraziarsi il professore di Sistemi che di lì a poco avrebbe fatto lezione nella nostra classe e che era di idee politiche opposte a quelle del collega di Italiano.
Come sempre accade alle migliori classi sfigate, proprio quel giorno, il prof di Italiano pensò bene di accompagnare quello di Sistemi fino in aula per non interrompere il confronto su un alunno del quinto anno. Quando i due si affacciarono in classe, i nostri volti passarono in una frazione di secondo, dall’area furbetta e compiaciuta a quella di chi sa che dovrà, tornato a casa, spiegare ai propri genitori il perché della sospensione di classe. Dopo qualche istante, il professore di Italiano si rivolse al collega con un semplice «permetti …?», si avvicinò alla lavagna, guardò la vignetta, si girò verso la classe e disse: «domani… che nessuno di voi dimentichi il diario. In ogni caso, il garofano non è una rosa, si affloscia ma non perde i petali!». Ritornò dal professore di Sistemi, gli sorrise, lo salutò e come se nulla fosse accaduto, uscì dall’aula per consentire al collega di torturarci, o che è lo stesso, fare lezione.
Il giorno dopo il prof di Italiano, prima di incominciare la lezione, ci invitò ad aprire i diari. Sconforto generale, tutti pensammo che sarebbe arrivata la famosa nota “accompagnato dai genitori”, invece, meraviglia delle meraviglie, il docente si limitò a farci scrivere, cito a memoria: «si consiglia l’acquisto del testo fuori programma “Avere o essere?” di Erich Fromm», con un’altra noticina che demandava ai genitori il controllo della lettura del libro. Chiusi i diari, iniziò a parlarci della contestazione giovanile del 1968 ispirata anche da quella “Scuola di Francoforte” di cui Fromm era uno dei maggiori protagonisti. Ci disse che il modo migliore per comprendere la delusione di chi credé di poter cambiare il mondo in quegli anni, per poi ritrovarsi con Tangentopoli, era leggere “Avere o essere”. Dopo qualche giorno, mio padre comprò il libro e presi subito a leggerlo spinto più dalla curiosità che dal dovere.
Ho sempre “maltrattato” i libri con sottolineature multi colore, note, asterischi e il libro di Fromm è stato uno dei più tartassati. Rileggendolo oggi, dopo tanti altri libri sottolineati e asteriscati, lo libererei da qualche sottolineatura o nota che adesso troverei superflua, ma all’epoca mi sembrò di poter affermare come Plotino per Ammonio Sacca, «ecco… è lui l’uomo che cercavo!».
Nel testo, già dalle prime battute, Fromm arriva al sodo scrivendo: “aut-aut tra avere ed essere non è un’alternativa che s’imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l’avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura nella quale la meta suprema sia l’avere – e anzi l’avere sempre più – e in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che « vale un milione di dollari », come può esserci un’alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che l’essenza vera dell’essere sia l’avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla.”
Subito dopo, però, l’analisi di Fromm si fa più intensa e individua due modi di determinarsi dell’esistenza dell’uomo nella società: “dicendo essere o avere, non mi riferisco a certe qualità a sé stanti di un soggetto, quali quelle che sono espresse in proposizioni come: «ho un’automobile» oppure «sono bianco» o «sono felice». Mi riferisco, al contrario, a due fondamentali modalità di esistenza, a due diverse maniere di atteggiarsi nei propri confronti e in quelli del mondo, a due diversi tipi di struttura caratteriale, la rispettiva preminenza dei quali determina la totalità dei pensieri, sentimenti e azioni di una persona”.
I due verbi ausiliari, dunque, manifestano due diverse modalità di vivere, due possibilità tra cui l’uomo sceglie liberamente. E allora il discorso diventa più che linguistico. Avere autorità o essere autorità. Avere conoscenza o conoscere. Avere amore o amare. Avere il lavoro o essere il lavoro. Avere amici o essere amici.
Fromm, infatti, scrive, “poniamo che un tale si rivolga a uno psicoanalista ed esordisca con la frase: « Dottore, io ho un problema; ho l’insonnia. Benché abbia una bella casa, bravi figli, un matrimonio felice, ho molte preoccupazioni ». Qualche decennio fa, anziché dire « ho un problema », il paziente con ogni probabilità avrebbe detto: « Sono agitato »; anziché dire « ho l’insonnia » avrebbe detto « non posso dormire » e invece di « ho un matrimonio felice », avrebbe usato l’espressione « sono felicemente sposato »”. Dunque, è evidente che “spezzare la modalità dell’avere è la condizione di ogni genuina attività”.
Ma la riflessione di Fromm che oggi faccio totalmente mia e che da ragazzino non colsi è quella sulla differenza tra il tempo dell’essere e il tempo dell’avere.
Il “qui e ora” è la modalità dell’essere in cui il tempo è destrutturato ed è il nostro strumento, “l’essere non è necessariamente fuori del tempo, ma il tempo non è la dimensione che governa l’essere”, mentre la modalità dell’avere è la storicizzazione in cui il tempo è strutturato nostro padrone, strumento altrui, infatti, “secondo la modalità dell’avere, noi siamo legati a ciò che abbiamo accumulato in passato: denaro, terre, fama, rango sociale, conoscenza, figli, memorie. Pensiamo al passato e, attraverso il “ricordo”, proviamo sentimenti (o quelli che appaiono essere tali) del passato, ed è questa l’essenza del sentimentalismo. Noi siamo il passato; e possiamo dire: «Io sono ciò che sono stato». Il futuro è l’anticipazione di quel che diverrà il passato. Lo si sperimenta nella modalità dell’avere, esattamente come accade per il passato, e lo si esprime dicendo a esempio: «Questa persona ‘ha un futuro’», col che si viene a significare che l’individuo in questione “avrà” molte cose anche se per il momento non le ha.”
Lo psicoanalista e sociologo tedesco, dunque, si fa promotore di una società libera dalla categoria dell’avere e fondata sull’uomo la cui struttura caratteriale possieda “la disponibilità a rinunciare a tutte le forme di avere, per essere senza residui”. Il rapporto tra l’uomo e la società non può più essere come quello descritto da Freud per il quale l’uomo è fondamentalmente antisociale e deve essere addomesticato dalla società.
Il libro si conclude con un monito: “l’unica alternativa al caos: la sintesi tra il nucleo spirituale del mondo tardo-medioevale e lo sviluppo, avvenuto a partire dal Rinascimento, del pensiero razionale e della scienza. Questa sintesi costituisce la ‘Città dell’Essere’.” Non so oggi giorno, con l’attuale situazione socio-politica, quale libro proporrebbe alla classe il mio vecchio professore di Italiano, ma dopo la lettura di Avere o essere?, chi per un motivo chi per un altro, riprendemmo a disegnarlo con nella mano sinistra, un garofano floscio sì, ma con tutti i petali, perché, «un garofano non è una rosa».