Pagine taglienti per Jack lo squartatore
Cinque donne vengono massacrate a Whitechapel tra la fine di agosto e l’inizio di novembre del 1888. Cinque passeggiatrici consumate da una vita dura, sorprese da una morte orrenda, più brutale di qualsiasi violenza abbiano mai conosciuto. A queste vittime accertate in tre anni ne seguono altre dall’attribuzione più dubbia, tutte donne accomunate dalla medesima professione e dall’accanimento del proprio carnefice.
Sono i delitti insoluti di una sagoma sfuggente, nebbiosa quanto la caligine che opprime il quartiere, l’ombra che col suo dissolversi nel nulla otterrà l’eterea immortalità degli incubi.
È l’opera di un omicida che rimane sconosciuto pur conquistando miriadi d’identità, esistenze, versioni, grazie a un irresistibile carisma da personaggio mediatico.
Niente volto, un nome da battaglia. Jack the ripper. Questa sigla suona come una rasoiata, colpisce più di una reclame, promette e mantiene i suoi propositi, in una parola “funziona”. Certo Jack non è il primo assassino a catalizzare l’immaginazione del pubblico. In passato, figure come il famigerato barbiere Sweeney Todd o il duo Burke e Hare si erano già ritagliate uno spazio alonato di leggenda nella memoria collettiva, lo squartatore però ha una caratura diversa dagli altri comuni tagliagole. Quel che lo caratterizza rendendo i suoi crimini un fenomeno socio-culturale è il connubio che crea tra sangue delle vittime e inchiostro delle rotative, associandoli in un’inedita combinazione di letteratura e vita.
Efferatezza estrema, assenza di movente e impunità sono ingredienti forti, buoni per una spettacolarizzazione della morte che l’aggiorna dall’arena dei gladiatori a quella altrettanto morbosa dell’informazione.
L’abisso spirituale del delitto turba, ripugna, seduce, in particolar modo se non ha il sostegno di una spiegazione legata a “comprensibili” moventi di lucro, onore o vendetta. Jack lo squartatore impazza in una città moderna, civilizzata, e si diverte mettendo in atto fantasie sadiche che nascono da recondite pulsioni di morte rimosse e codificate dalla società. Con le sue lettere alla Central News Agency londinese fa inoltre uno scavalcamento di campo dalla macelleria al giornalismo, rendendosi oggetto di cronaca e narratore a un tempo, forse con la consapevolezza di invadere regioni più intime e profonde di quelle violate dal bisturi.
Come padre (ig)nobile di schiere di futuri serial killer, l’assassino di Whitechapel scrive il proprio sanguinoso mito creando un’estetica del delitto diventata nel tempo un modello di riferimento, un luogo letterario, un archetipo.
Sulla sua figura di fumo fioriscono infinite teorie e iconografie, la cosiddetta Ripperology, un complesso di argomenti che vanno dall’indagine storica al racconto celebrativo, passando per il grottesco delle Urban Legend. La scarna base di informazioni reali esistente sul soggetto favorisce il suo scivolamento nel simbolo, identificandolo nel prodotto parossistico di una società castrante, oppure nella pedina di un complotto politico, o nella scheggia nichilista di un esistenza dominata dal caso.
Sotto il mantello capiente di Jack possiamo mettere di tutto, nel suo buio c’è spazio per qualunque proiezione, la fiction quindi se ne impadronisce moltiplicandolo in mille frammenti che cercano di fotografare una porzione di verità. Uno dei primi più fortunati esempi è un romanzo del 1913 che inaugura la nascita di un filone in cui l’ipotesi, la ricostruzione e il romanzesco si intrecciano. In The Lodger di Marie Belloc Lowndes i sospetti che crescono intorno a Sleuth, l’ambiguo pensionante dei coniugi Bunting, tingono di angoscia una storia nata dal dilagare della diffidenza collettiva. Il soggetto ricco di tensione viene adattato per il cinema nel ’27 da Alfred Hitchcock, ritornando poi negli anni in quattro remake tra i quali spicca L’Étrange Mr. Slade di Hugo Fregonese, con un sinistro Jack Palance.
Per le sue implicazioni da dramma psicologico il killer aveva comunque già trovato posto nell’ambito del teatro e del Grand Guignol. L’ombra dello Squartatore fa capo nell’opera di Wedekind Il vaso di Pandora, innestandosi nella tragica parabola di una donna distruttiva, rappresentazione del peccato stesso.
Un’altra ispirazione è avvertibile nel Mackie Messer/Macheath, il criminale dell’Opera da tre soldi di Bertold Brecht, parentela che Alan Moore renderà esplicita collocando Macheath nel suo comic Century in veste di alter ego dell’omicida.
La ripetitività dei gesti, la platealità, la dimensione autocelebrativa dei misfatti, fanno di Jack lo squartatore un prototipo perfetto di villain per il mondo a tinte forti del romanzo d’appendice. Nel ciclo del detective yogin e Rosicruciano Sâr Dubnotal, pubblicato in Francia a partire dal 1909, il “Napoleone dell’intangibile” creato da Norbert Sévestre si scontra a più riprese con un malvagio ipnotista chiamato Tserpchikopf, versione occulta e mirabolante del Ripper.
Spostando il racconto dall’aderenza storica all’invenzione, una fitta messe narrativa porta Jack a sconfinare in generi cresciuti nel bacino della pulp fiction. Dalle pagine di Weird Tales lo scrittore Robert Bloch propone nel ’43 una interpretazione soprannaturale del caso di cronaca, restando in equilibrio tra dato investigativo e fantasia pura. In Yours truly, Jack the ripper, il futuro autore di Psycho delinea un caso “ai confini della realtà” in cui gli omicidi rituali di prostitute sono un mezzo per garantire l’immortalità al loro esecutore, immolando le vittime a divinità oscure.
Bloch spingerà il tema in direzioni più fantascientifiche miscelando viaggi temporali, distopia e icone letterarie (la Juliette di De Sade) in un racconto del ’67, A Toy for Juliette, pubblicato nella antologia sperimentale Dangerous visions. Anni dopo si riaccosterà al mito con un romanzo del 1984, The night of the ripper, in questo caso attenendosi fedelmente alla realtà dei fatti per sviluppare un discorso sulla vena di violenza inestirpabile dalla Storia umana. Non c’è fine alle reincarnazioni nate sulla carta e proseguite sulle assi di un palcoscenico o su di uno schermo. Sempre Bloch riprenderà ancora la sagoma del mostro per fargli gettare ombra persino alle galassie di Star Trek, il telefilm fantascientifico creato da Gene Roddenberry.
Nell’episodio del 1967 Wolf in the fold una serie di delitti efferati sembra inchiodare come responsabile l’ufficiale ingegnere Scott. In realtà il killer si rivela essere un’entità maligna chiamata Redjac (lo Squartatore), ulteriore tributo dello sceneggiatore a un icona personale in grado di attraversare tempo, spazio e media.
Neanche lo spazio è al sicuro dal potere pervasivo di Jack, che dal suo mistero continua a ipnotizzare e uccidere come una finestra affacciata su un abisso senza fondo.