Pavese e la fatica di Sisifo
Se la vita è spigoli e spianate, se oggi il mattino ci reca la notizia di una promessa solo un poco più in là, a destra del cancello, e se sempre domani ci si ritrova con le ossa infreddolite da una pena, se accade il mondo e noi con lui, serve a qualcosa la volontà? Siamo davvero artefici dei nostri passi, velisti che strambano quando una spruzzata di vento buono gonfia la vela? Dove la responsabilità, dove la costrizione?
Cesare Pavese fu da sempre l’amico della nostra disperazione, e ci siamo troppe volte ritrovati un suo libro tra le mani quando l’anima era stritolata, in una sera di lucciole immaginate, di ritorni senza aver concluso niente, di conti pagati senza aver consumato alcun pasto. Ci è stato fratello nei tracolli, quando ogni uomo cerca di arrivare all’equazione ultima, alla cifra definitiva che spieghi il suo scacco. L’essere ha bisogno di appoggiarsi alla rovina additando il cielo o l’uomo col fucile, perché la devastazione rimasta inspiegata si moltiplica, come immagine di uno specchio. Lo abbiamo amato il poeta delle Langhe, lo amammo perché ci faceva sentire bambini, perché riusciva a fare del dolore qualcosa di dolce, ché lui sapeva come colorare d’azzurro le pareti dell’inferno.
Con lui abbiamo navigato a ritroso, nelle secche e nelle rade che rompevano lo scafo, e ci siamo allagati di memorie, di trapassi e iniziazioni, ritrovando nella sua la nostra infanzia, costruendo un mondo a prova di tempo, sottratto alla storia. Cercavamo noi stessi per pezzi confusi, a tentare di dare forma a qualcosa di coerente, e quando l’anima nostra ci spinse a lui lo fece per assonanza, perché nel mondo le infinite storie irripetibili devono pur sempre trovare la minima rassicurazione di una casistica. Molte volte un dolore condiviso ha salvato dalla follia. “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”. Così il narratore piemontese nel suo diario di una vita Il mestiere di vivere, traccia senza ardue complicazioni e inutili arrampicate filosofiche ciò che crea il legame tra scrittore e lettore: la vana illusione dell’essere fratelli, del possibile contatto. La letteratura quindi come un tentativo di spezzare quel cerchio di solitudine che affascinava e terrificava il nostro Cesare, che della vita seppe cogliere l’ambivalenza terrificante, refrattaria ad ogni ricomposizione, scissa fino al cuore e agli occhi. Nella frattura insanabile la bellezza dell’abisso, lo spazio di manovra della creazione artistica, il tentativo per gli uomini in equilibrio precario sui mille cigli della spaccatura, di darsi la mano, in maniera vana.
Ma dove recuperare il filo che avrebbe dato una direzione alla trama, che avrebbe spiegato in maniera definitiva il nostro andare, che avrebbe posto temporaneamente fine alla ricerca inesauribile mettendoci a contatto con il numero primo e ultimo che generò la catena di ciò che divenimmo? In un tempo mai stato, nello spazio che viene prima della ragione, nella dimora delle cose stabilite una volta per sempre. È l’infanzia il principio e il termine del nostro agire di oggi, è lì il mostro o l’angelo che ha architettato la forma curva o smembrata del nostro cuore adulto. Non c’è rimedio, né possibilità di levigare o raddrizzare. Fu il primo nome che demmo alle cose a fissarle per l’eternità, come una sorta di Inferno dantesco, dove la colpa commessa stabilisce per l’eternità la condizione e la pena del dannato. “Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre? Non è mica per caso che ti metti nei guai. Poi ci ricaschi. Si chiama il destino”.
In questo passaggio tratto da Il diavolo sulle colline trova chiarezza il principio e la visione di Pavese sull’agire dell’uomo. Una severa reprimenda a chi crede nella virtù che piega l’accidente, alla volontà come capacità di trasformare il sé e il mondo. La nostra storia è fuori dalle intenzioni, e a nulla serve impegnarsi a mutare, a trovare altre risposte e modi di azione di fronte agli eventi. Risponderemo sempre alla stessa maniera, avremo un’immagine, una sola, che rievocata determinerà la risposta perenne allo stimolo. Alla speranza di Machiavelli si sostituisce il disincanto di Guicciardini. L’immagine e la risposta sono state generate in un tempo prelogico, appartengono all’eterno del mito. Lì l’essere viene costruito nelle sue profondità, e poi, gettato nelle coordinate dei giorni e degli anni ripete la cantilena imparata senza coscienza, quando era tutt’uno con la natura, svezzato da albe che avevano il profilo del divino.
Ciascuno è determinato dal suo mito, da ciò che sentì quando ancora non sapeva ma intuiva. Se chiude gli occhi, l’adulto di adesso ha come primi ricordi immagini precise, scolpite. Tali immagini e la sensazione che riportano in vita determineranno il coraggio o la paura, la solitudine o l’abbraccio, l’avanzata o la ritirata di fronte al mondo e alla storia. Il mito pavesiano evoca le sue personali angosce primordiali: la vigna, la collina, la terra, tutti luoghi in cui la vita esplode e si scatena la violenza, “il selvaggio”, “il primitivo”. Ma il mito non è salvifico, è un mezzo però di cui servirsi per arrivare a conoscere una realtà superiore a quella attingibile per via logica. Infanzia e mito sono strettamente correlati, e il recupero del mito è recupero dell’infanzia come possesso per sempre, fondamento immutabile di tutti i risvegli futuri. Attraverso i ricordi l’uomo costruisce i suoi tasselli, arriva a cogliere il perché dei gesti dell’uomo maturo. È attraverso i ricordi che si recupera la radice dell’essere, perché conoscere è sempre riconoscere, è vedere le cose una seconda volta, e ricordare.
Ma Pavese lottò tutta una vita a smentire le sue intuizioni, e a fare della volontà la benzina del suo muoversi tra gli altri. Voleva dar torto alla sua verità che lo dannava, iniziare e perdersi in avventure nuove, ad imparare nuovi schemi dal mondo “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità, – si vorrebbe morire. Non riuscì a trovare la soluzione, il suo mito non gli permetteva la comunione con gli uomini. Tutta la sua esistenza fu come quella di Sisifo, a portare sulla cima del monte il macigno della volontà. Sempre rotolò giù. Sempre iniziò di nuovo. Una sera di agosto decise di smettere…”