La sorella di John Wayne e la “resistenza” degli stereotipi – Seconda parte
di Marco Antonio D’Aiutolo
Che lo stereotipo femmineo attribuito all’omosessuale sia correlato allo stereotipo di virilità è stato messo in evidenza nell’articolo precedente, dove ho mostrato come nel film Il vizietto di Edouard Molinaro entrambi questi stereotipi giochino un ruolo molto forte, opponendo una resistenza quasi esasperata. Mi sono soffermato, inoltre, sul fatto che essi derivano da un’identità maschile che è il prodotto idealizzato di processi storici, culturali, sociali ed ideologici, un’idea largamente riconosciuta che trova concordi la maggior parte dei sociologi, psicologi, antropologi e storici.
Infatti, come afferma il giovane storico italiano Lorenzo Benadusi nel suo Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista (prendendo spunto ed ispirazione proprio dall’opera di George L. Mosse citata nella prima parte di questo contributo), “è oramai disponibile una ricca letteratura che è confluita in un settore disciplinare specifico, denominato men’s history”
Mentre lo storico tedesco si è concentrato soprattutto sulla nascita del virilismo in seguito al formarsi del nazionalismo di stampo borghese in Inghilterra e in Germania tra il ‘700 e l’800, nazionalismo che ha permeato poi tutte le classi sociali raggiungendo l’apice nei fascismi del Novecento (quello italo-tedesco, ma anche quello francese, mai divenuto effettivo regime politico come il primo), Benadusi si interessa in particolare dell’Italia e del totalitarismo nostrano. Come Mosse, egli ricostruisce i meccanismi prefascisti dell’evoluzione del concetto di virilità che “il fascismo prese e riadattò”, sì da esasperare il compito già assunto con l’Unità d’Italia: “fare gli italiani”, cioè plasmarne corpo e carattere “alle esigenze del nuovo Stato nazionale per il quale era un obbligo inderogabile la creazione di quel minimo di omogeneità antropologica, che passava per norme morali, comportamentali e igieniche valide per tutti”. Secondo Benadusi, “è in questo contesto che si colloca il tentativo di ridefinire la mascolinità e di realizzare un’opera di virilizzazione degli italiani”.
Ne Il vizietto i due protagonisti, Renato Baldi e Albin Mougeotte tentano di compiere un’operazione che, attraverso un lavoro su se stessi (e in particolare su Albin), si fonda esattamente sulla concezione sopra descritta, unico modo per rendersi all’altezza dei genitori della fidanzata del figlio di Renato. Nel film di Molinaro, dunque, viene descritta e messa in scena un’intelligente presa in giro di quel virilismo e italianismo, retaggio di un fascismo duro a morire, operando così una critica alle sovrastrutture sociali. L’immagine “particolare” di omosessuale veicolata dal film è un perfetto esempio della “resistenza dello stereotipo”. A mio avviso, infatti, Molinaro fa emergere intenzionalmente quel “gioco di stereotipi” caratteristico della commedia La Cage aux folles di Jean Poiret, da lui adattata per il cinema.
C’è un altro aspetto che si può cogliere nel film e che definirei l’immagine del “mondo alla rovescia”. Esso muove dall’ambiguità semantica del termine folles, che significa sia “pazze”che “checche”. Come si ricorderà, La Cage aux folles è il nome del locale di Renato e Albin: letteralmente “La gabbia di matte/checche”. Ora, sia questo che il titolo Il vizietto, con cui il film è conosciuto al pubblico italiano, acquistano un senso specifico nello svolgersi dei fatti narrati. È noto, infatti, che il sostantivo “vizietto” veniva a designare elegantemente le persone omosessuali, soprattutto in ambito giornalistico (“quello ha il vizietto” si diceva per riassumerne i particolari gusti sessuali). Nel film, però, il termine non viene più attribuito all’omosessualità, bensì all’attrazione di Renato anche verso le donne. È qui che si mostra il capovolgimento di un “sistema”.
Nella Gabbia delle checche, dove l’omosessualità è ordinaria e “normativa”, con stile raffinato e sottile, paradossalmente, il gioco di stereotipi acquista funzioni diverse in modo che ora sia l’eterosessualità ad essere considerata “vizietto”. Si comprende allora la resistenza di Albin a mantenere un atteggiamento femmineo, per salvaguardare uno status vigente; come anche la tolleranza che Renato usa nel perdonare una drag queen del locale per aver messo incinta la moglie, trasgredendo l’ordine costituito della Gabbia; o quando, sempre Renato ne minaccia un’altra di chiamarla con il nome proprio maschile (“scandalo” per l’etica di quel mondo rovesciato). In breve, ci troviamo di fronte ad un capovolgimento di quanto avviene in un contesto etero-normativo dove è invece l’omosessuale la vittima della riprovazione sociale.
A rafforzare la tesi che è alla base della resistenza dello stereotipo è la conclusione disastrosa della cena con i suoceri moralisti del figlio di Renato. Infatti, l’ordine delle cose omosessuale non solo non è distrutto, né riesce a camuffarsi, ma permette persino di mettere in salvo i genitori della ragazza dal rischio di uno scandalo. Essi, mascherati da donna, scampano alla massa di giornalisti e paparazzi, appostati davanti casa di Albin e Renato. Ciò che ad Albin non è riuscito al contrario, lo fa il padre di lei, mostrando così ironicamente proprio l’assunzione di un habitus omosessuale.
In un sistema dove le sovrastrutture non sono negate, ma capovolte, lo stereotipo omosessuale viene veicolato con un chiaro intento affermativo: esso non è più né cattivo né brutto ma è anzi capaci di mettere a soqquadro le sovrastrutture sociali attraverso una sorprendente opera di capovolgimento. In questo modo, il film (come la piéce) si inserisce nella ventata di rivendicazioni dei movimenti gay che presero origine dalla rivolta di Stonewall: un locale (appunto!) di New York in cui, nel giugno del ’69, un gruppo di “checche” reagì alle vessazioni della polizia. Ne scaturì una guerriglia urbana di tre giorni che generarono i Gay Pride e, insieme, i gay cultural studies. Il film diventa, quindi, l’esempio palese delle rivendicazioni omosessuali, in cui la capacità di rovesciare l’ordine costituito permette di appropriarsi di termini considerati dispregiativi, trasformandone la semantica: cioè traducendone i significati in motivi di orgoglio. È l’atteggiamento trasformativo dell’intelligenza umana, una pratica tipica delle minoranze, attestata nella storia stessa delle comunità Lgbt.
Avviene con il termine omosessualità, “coniato dalla medicina e [che] solamente nella seconda metà dell’Ottocento rimpiazzò il tradizionale ‘sodomia’ – scrive Mosse, che ha rilevato il medesimo atteggiamento con il decadentismo, dove “artisti e scrittori trasformarono la parola ‘decadenza’ in un segno di orgoglio, considerandolo il primo passo di un così necessario rovesciamento dei valori sociali prevalenti”. Tra le altre cose, il successo del film fece sì che nel 1982, a Diano Marina in Liguria, aprì un locale gay a cui fu dato il nome di “Vizietto” in onore del film.
Quanto sopra descritto si pone quindi come un atto politico, com rivendicazione di un’identità diversa: l’esistenza legittima dell’a-normalità che “resiste” ad ogni omologazione. Si presenta, inoltre, come riconoscimento di “un’immagine dell’uomo più sfumata ed eterogenea” – osserva Benadusi – che ricorda come l’approccio scientifico all’identità maschile abbia messo in evidenza “identità maschili al plurale, privilegiando l’aspetto soggettivo rispetto alla rigida delineazione di un modello”. Di qui, a suo avviso, sorge l’attenzione all’omosessualità: non più “contraltare dell’eterosessualità, ma semplicemente un’identità ‘particolare’”.
Di qui anche l’idea di un pluralismo omosessuale, perché, come diceva André Gide già nel 1911, “non esiste la omosessualità ma le omosessualità” (siano esse femminee, mascoline, spudorate o “timorate di Dio”). Per cui, per usare le parole di una canzone del musical La Cage aux folles dell’83 (la cui versione più nota di Gloria Gaynor è stato simbolo delle rivendicazioni dei diritti Lgbt), è proprio vero che I Am what I Am (sono ciò che sono).