Paese amaro

di Eliana Petrizzi

27 maggio
Le erbe selvatiche raccolgono il vento, iniziando il passante alla legge schiva del luogo.
Qui, appena arrivati si vanno a salutare le comari, si accettano un dolce fatto in casa e qualche uovo fresco. Poi si parla della salute, dei figli emigrati a Torino o a Carpi, della stagione, dei morti, e di nuovo dei parenti lontani.
Gli anziani che stanno all’ospizio ogni tanto escono, e si incontrano con quelli del paese. Seduti l’uno accanto all’altro, fissano la montagna o l’orologio fermo della piazza. Di sera, guardo i fari di una macchina che passa, la luna che sale. Balconi aperti, il canto dei grilli, il ronzio di un frigo, il tuono di un aereo lontano. Dalle finestre socchiuse esce solo il respiro di chi dorme.

2 giugno
Giugno è il mese migliore per visitare questi luoghi. Il caldo non fiacca, le valli fioriscono, i fiumi si riempiono. L’anno scorso, chi mi conosceva si affacciava a salutarmi. Ora chi vi abitava è morto, o se mi ha vista non mi ha riconosciuta. In piazza a mezzogiorno si sentono le rondini e le loro covate, poi tortore, poiane, grilli, mosconi nell’ombra dei vicoli, lo scampanio delle vacche dal fiume a fondovalle. Respiro un profumo di pioggia caduta lontano, seguo le impronte di un asino nel cemento del marciapiede, e formiche che trasportano falene come Santi in processione.
Saluto commà Tinuzza e sua nipote Gilda, una ragazza che vive a Torino da quando è nata; ha un tatuaggio in petto, piercing, capelli bordeaux, smalto nero alle unghie di mani e piedi. Se la guardi negli occhi, però, ritrovi la pacata disperazione del paese, che la città non ha guarito.

Vado a salutare Maria, 81 anni, più magra dell’anno scorso, più lenta a capire le cose. Poi Rosina, che mi rivolge le solite domande su come stanno i parenti a casa, se mi sono sposata, se no quando, e se non ancora perché. Finito il giro, vado di nuovo da Maria, che trascorre le giornate a leggere i calendari di Fra’ Indovino; sta senza televisione da un anno, perché la vecchia Telefunken non ha il digitale, e quello che li vende abita in un paese oltre la montagna.La festa della Repubblica qui è un giorno come gli altri. Mi affaccio a guardare il paesaggio da un’altezza che è quasi un volo. Mi accorgo così che non è cambiato un solo dettaglio dalla notte in cui, chiuso mio padre al cimitero, rimasi a lungo a fissare una luna così grande che pareva dovesse venire il terremoto.
Faccio un giro fuori al paese. Tra strapiombi e calanchi, ritrovo gli insediamenti arcaici, la prima scuola di alfabetizzazione rurale per i contadini di montagna, la fonte dello zampognaro. Le foto che scatto fermano il finocchio selvatico, i fichi caduti sul selciato, cardi, lumache, le fessure ai piedi degli ulivi; una lepre, poiane in volo sugli ulivi, un serpente che attraversa la strada.Torno in piazza e saluto Raffaele, un uomo che a cinquant’anni mi dice che è vecchio, che questo è un posto terribile per viverci, e che facciamo presto noi turisti a dire che è bello solo perché ci veniamo tre giorni all’anno. Faccio questa strada ogni volta per andare al cimitero dove è sepolto mio padre. Il cimitero è una radura severa, che somiglia un poco all’isola dei morti di Böcklin. La luna si posa sulla collina, fine come un’unghia. Mi chiedo di mio padre. Da parte sua nessun segnale. Quando vengo a trovarlo mi siedo accanto alla lapide, ma non vedo l’ora di andarmene, delusa come una che è andata a un appuntamento al buio nel posto sbagliato. Io le preghiere non le so dire, e se le dico mi distraggo. Allora, con mio padre ho trovato un altro modo di parlare: guardando le case abbandonate del suo paese. Ascolto i silenzi richiamati dall’ombra delle pietre, nel tepore tra muro e muro come tra palmi stretti. Guardo finestre chiuse, aperte o murate. Quando mi alzo e me ne vado, so che io e mio padre ci siamo capiti, e tanto basta.
Torno in piazza dalla strada che costeggia il cimitero, da cui posso vedere una veduta del paese buona per una cartolina. Saluto mia zia, che da trent’anni prima di partire mi dà pochi euro e mi dice “Comprati un gelato”.

27 maggio, un anno dopo
Mia zia parla un dialetto sempre più stretto, che non capisco. Dopo le solite domande sul lavoro e sulla salute, fa l’elenco dei morti nuovi in paese. Al cimitero conto i loculi col cemento fresco, le ghirlande appassite, lombrichi arrotolati come liquirizie accanto alle cappelle. Questo mese è morto Giovanni a 50 anni; poi tre vecchi, uno del ’13, uno del ’17 e uno del ’31. Tonia è morta a 96 anni d’infarto da sola in casa, mentre scaldava la verdura. Margherita è morta di vecchiaia da sola all’ospedale. Mia zia racconta di Giuseppe, morto a 60 anni tra molte sofferenze, mentre il suo vicino, usuraio, a 95 anni è vivo e sta bene. Dice la stessa cosa pure di mio padre, morto a 61, e di Annetta, morta a 59. Finito il conto dei morti, il discorso passa alla vita dei vecchi nell’ospizio del paese. Le chiedo se pensa che dopo la morte incontreremo i nostri familiari e i nostri amici, e se può mai essere che in una vita che si spera così grande, tra miliardi di anime devi andare a ricongiungerti proprio coi tuoi parenti o con quelli del tuo paese; e se non è invece più probabile che farai amicizia con anime di un altro posto, o addirittura di altre razze. Mia zia risponde che coi forestieri non vuole fare amicizia, che lei per sicurezza prega ogni giorno, ma che dall’altro mondo nessuno è mai tornato.

29 maggio
A Cumma’ Ninuzza feci una foto 10 anni fa. Lo scatto la ritraeva di spalle, vestita di nero, la faccia contro il muro della piazza. Mi domanda chi sono, a chi appartengo e che sto facendo, e visto che sto fotografando case che crollano, mi chiede di fotografare anche le sue tre casupole, una volta stalle e cantine, aggiustate alla buona per i tre figli che vivono in Germania, che vengono a trovarla una volta all’anno, a volte ogni due. Ninuzza va all’ospizio quando ha paura di restare sola in casa, per via dei giovani che vanno a rubare in giro. La borsa è sempre pronta, con un paio di cambiate, e il vestito che le devono mettere nella bara se dovesse morire all’improvviso. Mi fa vedere l’orto, il giardino, la terrazza che finisce a strapiombo sul fondovalle; poi le radiografie dell’intervento all’anca, i Santi nell’altare sopra il letto, le foto del marito morto e quella del loro matrimonio, in cui Ninuzza ha un viso disperato. Mi parla dei giovani sfaticati, del vicinato che muore, dei figli che non tornano, dei nipoti che non si vedono mai, della frutta che si perde sugli alberi, della gente che non parla, e che se parla dice solo cose disgraziate. Mentre andiamo in piazza, io vado piano, ma lei dice che non devo rallentare, perché lei al mio passo ci può stare. Poi, però, all’ultimo scalino dice: “Mi sono fatta vecchia. Che peccato per la mia giovinezza scomparsa”.

30 maggio
Si è alzato uno scirocco forte. In piazza, tre vecchi sulle scale guardano la montagna a braccia conserte. Uno di loro si alza, mi saluta e si siede accanto a me, chiedendosi com’è possibile che ieri era una bella giornata e oggi si è alzato questo vento, che ieri le cose stavano in un modo e oggi in un altro. Mi domanda se so che quello alle mie spalle è il palazzo del Barone, e dice che pure quella famiglia ha fatto una brutta fine.
Deserti la piazza e i vicoli. Chiuse la chiesa, le porte, le finestre. Vecchi infissi crollati, betoniere, impalcature senza operai, piante cresciute tra i lastroni delle strade, un cane che abbaia con un rancore stanco. In cima a una scala, c’è il bagno di una casa abbandonata, con un albero pieno di albicocche mature che nessuno raccoglie. Trent’anni anni fa in questo bagno è morto un vecchio, ma non se ne è accorto nessuno per giorni. Gesù Cristo ne ha fatta scendere di pioggia in 30 anni, dice uno che passa, ma le albicocche da quel giorno non le prende più nessuno.
Programma della domenica pomeriggio: andare con mia zia al cimitero. Mia zia saluta il marito, poi i vicini e i loro parenti, con un bacio lanciato a distanza. Ritornando in paese, nessuna di noi parla. Solo mia zia a un certo punto mi chiede se lo straccio lasciato per mesi fuori al nostro balcone è ancora lì, o se l’è portato il vento.
Quando stai per partire, ti dicono: “La prossima volta resta, vieni a casa a salutarmi”. Poi, quando torni e ti vedono a stento ti salutano, e tanto basta a dire d’essersi incontrati. Giovanni era un bel ragazzo sveglio. A 56 anni vive ancora con la madre. Lo saluto e non mi riconosce. Alfonsina, a 20 anni passa la vita dalla casa alla chiesa e dalla chiesa al cimitero; le mani chiuse a pugno, non un filo di trucco, molti capelli bianchi. Lucia ha un tumore: viene a salutarci, mostrandoci la pancia gonfia e la faccia invecchiata. Per curarsi deve andare in un ospedale che dista 93 chilometri, accompagnata da una vicina più vecchia di lei, vedova e madre di un figlio unico che non vede mai. La casa di Filomena è crepata a causa dello smottamento della montagna, che in poco tempo, dicono, cancellerà gran parte del paese. Le chiedo perché non se ne va da un’altra parte, magari dai figli a Bologna. Mi risponde che prima o poi bisogna morire, e che se un posto vale l’altro è meglio casa sua. Il paese si svuota, la gente è sola, la malattia non si cura. Di una nascita, dei morti, delle olive che si perdono, si parla senza dispiacere né speranza. Pandolina vive sola da 50 anni, circondata da calendari scaduti, foto di Santi e defunti. Le chiedo come fa a vivere senza tristezza, né allegria per niente. Le dico che nessuno è fatto per stare da solo, che pure le tende appena lavate per stirarsi bene devono stare in compagnia, prendere il vapore di una tisana, il fiato di chi ci dorme accanto. Mi risponde che sta bene così, e che non le manca niente.
Visita a donna Titta. Si parla ancora delle cose che non vanno e della sua vita qui, così spenta. Le chiedo che si può fare per cambiare la situazione. Titta guarda fuori, alza le spalle e dice: “Tutte le cose finiscono”.
Osservo la piazzetta costruita da poco, con fioriere e panchine che non servono a nessuno. Da qui si vedono solo il cimitero, la montagna, il fondovalle deserto, e vecchie cose meravigliose di cui nessuno più si dà pena.

5 giugno
Stamattina il sole dà un poco di speranza a chi è seduto dall’alba davanti al bar. Rifaccio il giro dei vicoli, lo stesso da 30 anni. Le case nuove spiccano senza voce tra quelle vecchie. Molte sono in vendita, ma nessuno le vuole nemmeno regalate, perché qui c’è solo gente che scompare. I giovani in piazza stanno seduti in silenzio, nella posa che hanno i parenti in casa dopo un lutto. I vecchi muoiono per essiccazione sul posto, fiduciosi nella terra che curerà i loro resti. Le nascite riguardano soprattutto rondini, passeri, piccioni e violacciocche tra le pietre della torre medievale. I ragazzi del posto non hanno scelta: dopo le scuole se ne devono andare. Molti tornano solo ad agosto. Chissà se da vecchi vorranno tornare qui, o almeno esservi sepolti. Molti non potranno, altri non vorranno. Eppure, forse ricorderanno l’odore della pioggia sui muri della casa dove nacquero i loro padri, lo sconforto familiare di certi giorni, l’ombra delle nuvole sulle montagne e sui fiumi, il volo delle poiane, il profumo delle ginestre, che si sente per chilometri fin dentro le case.

Alla fine del giorno, guardo a lungo le montagne. Vivo alla luce del giorno e non mi manca niente, ma non so chi sono. Non come le persone di un tempo, che nel buio delle loro menti capivano ogni cosa.

 

 

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