“È forse il mio incauto amarti un sacrilegio?”: Umberto Saba e l’irriducibilità alla norma

di Marco Antonio D’Aiutolo

O tu che contro me vecchio nel fiore
dei tuoi anni ti levi, occhi che all’ira
fiammeggiano più nostra come stella,
bocca che ai baci dati e ricevuti
armonizzi parole, è forse il mio
incauto amarti un sacrilegio? Or questo
è fra me e Dio
Alto cielo! Mio bel splendente amore!

Nella poesia riportata in esergo, dal titolo Angelo, tratta dal Canzoniere di Umberto Saba, viene espressa con grande finezza una delle più belle confessioni del poeta italiano della prima metà del Novecento: l’incauto amore. Ed è con Saba che vorrei iniziare il mio percorso più specificamente dedicato alla letteratura omosessuale del secolo scorso. L’obiettivo della presente rubrica è quello di mostrare come la comunità Lgbt abbia una storia e come, in essa, si sia dotata di un ethos. È un insieme multiforme, variegato, colorato di esperienze umane che comprendono arte, poesia, letteratura, cinema, affermazioni e rivendicazioni. In quanto comunità, è un vero cosmo, non fatto da “poveri diavoli”, bensì di elementi intrecciati che, sebbene giustamente diversi o anche attraversati da contraddizioni irriducibili, hanno una portata culturale e politica inestimabile.

Risultati immagini per foto pasoliniCome osserva Francesco Gnerre in Eroe Negato, si sa poco della vita privata di Umberto Saba (1883-1957) sebbene “la sua opera è tutta basata sulla ricostruzione della propria vita” (l’amore per la moglie, l’infanzia, il conflitto padre-madre); “ma non sono meno importanti i ragazzi che fin dalle prime poesie del 1911 compaiono numerosi in tutti i suoi versi”. Angelo è uno di essi. Ed proprio è in quei versi che emerge quel “pensiero che non dici, ascoso”, di cui chiede spiegazioni uno dei “fanciulli di Saba”, Glauco, in una poesia della prima raccolta.

Questo “pensiero ascoso”, fatto di allusioni, riferimenti vaghi ad amori trasgressivi, disseminati in vari modi, rimandano al desiderio omoerotico di Saba, che solo un occhio attento può percepire in quei “minuscoli e numerosissimi clic”, come sottolinea Mario Lavagetto nel suo contributo introduttivo a Tutte le poesie di Saba. “È tuttavia – aggiunge – qualcosa che deve essere indovinato, riconosciuto, avvertito sotto le superfici”. Ma è, soprattutto, il suo romanzo postumo a fornirci un vero e proprio criterio interpretativo dell’omosessualità “ascosa” di Saba. Si tratta di Ernesto, scritto nel 1953, rimasto incompiuto e pubblicato postumo proprio per volontà di Saba stesso che impose alla figlia e ai pochi amici che ebbero l’onore di leggerlo di non pubblicare mai. Anzi – come scrive alla prima – di tenerlo in cassetti “chiusi a chiave, e le chiavi in vostre mani”.

È il sistema di “autocensura” che ha caratterizzato molti degli scrittori e poeti omosessuali e di cui ho parlato nell’articolo introduttivo. In quell’occasione ho fatto cenno anche a ciò che Pasolini, nel 1972, osservava in merito ad un altro romanzo postumo, questa volta di un inglese, Edward M. Forster, cioè Maurice, scritto nel 1913, ma pubblicato nel ’71: “I capolavori scoperti o pubblicati in ritardo, forse non riusciranno mai ad ‘agire’ come tali sulle coscienze”. Per cui, l’errore di Forster e, nel nostro caso, di Saba, sarebbe stato un “errore morale” oltre che “pratico”. “Ma queste son chiacchiere, che hanno valore solo se suonano come esasperata condanna della società puritana che ha obbligato Forster [e per noi: Saba] ad un atto di viltà (lui così meravigliosamente coraggioso e lucido)”. Sull’articolo di Pasolini ritornerò, diffusamente, al momento opportuno. Tornando al testo di Saba, pubblicato casualmente l’anno della morte del poeta de Le ceneri di Gramsci (1975), ancora Gnerre scrive che “Ernesto è un adolescente pieno di vita, disponibile verso ‘il mondo meraviglioso’, immune da certi tabù che hanno il potere di trasformare le realtà naturali in mostruosità”. La frantumazione di questi tabù si presenta come una forza d’urto, in atto già dalla prima relazione di lui, figlio di borghesi di Trieste, con un operaio della sua stessa ditta, in particolare nei dialoghi delle prime pagine, quando l’uomo chiede: “Nol sa quel che me piaserìa tanto farghe?” ed Ernesto risponde, “con tranquilla innocenza”: “Mettermelo in culo”.

Sebbene l’operaio stesso resterà urtato e impaurito da tanta crudezza espressiva, essa – si legge nel romanzo – sarebbe stata, “molti anni più tardi”, la rivelazione del “suo ‘stile’: quel giungere al cuore delle cose…superando insistenze e inibizioni, senza perifrasi e giri inutili di parole”. Ed è ciò che Lavagetto ha definito: “la parabola dell’anomalia poetica, della sua [di Saba] irriducibilità alla norma”. Perciò la prima relazione di Ernesto “è solare, liberatoria come può esistere forse solo nella fantasia di un poeta che riesce a porsi di fronte alla vita con la curiosità spontanea e la sensualità innocente non contaminata ancora da alcun tabù” (Gnerre).

Risultati immagini per foto moraviaIl romanzo riporta altri incontri di Ernesto, semplici incontri umani (come con la prostituta), mostrerà lo scontro tra le inibizioni del ragazzo e le reticenze morali dello zio, della madre (testimoni di un contesto culturale piccolo-borghese triestino di fine ‘800), descriverà le angosce dello stesso operaio, doppiamente escluso dalla vita in quanto omosessuale e socialmente inferiore. Finché Ernesto non incontrerà un coetaneo, Ilio, presso lo stesso maestro di violino. Parleranno dei loro studi e si stringeranno la mano, congedandosi: un gesto apparentemente banale, ma che, come riportato nel romanzo, “invece per la particolare costellazione sotto cui nacque, e per le sue conseguenze remote era…un avvenimento raro, quale può prodursi, sì e no, una volta sola in un secolo e in un solo paese”.

Qui il romanzo si interrompe, a mio avviso fortunatamente. Infatti, era intenzione di Saba continuare la storia con l’amore di Ernesto e Ilio, ma per una stessa donna: un tentativo di “normalizzazione” che avrebbe trasformato e cancellato un’esperienza di iniziazione in un semplice fatto episodico dell’adolescenza. Ma è l’autore stesso a non crederlo possibile. “No – scrive in una lettera – non ce la faccio. Verrà certamente qualcosa che (stanchezza a parte) farà di Ernesto un libro incompiuto”. Perciò, come osserva Alberto Moravia qualche anno dopo, ciò che Saba ha scritto è “coraggiosamente vero” e, come fa presente Gnerre, Ernesto – ponendosi, con le sue disponibilità, innocenza, libertà e frantumazione dei tabù, “un po’ fuori dalla storia è la proiezione della liberazione di Saba stesso”.

Non so se quello di Saba sia stato un atto vile, o un errore morale, ma si può dire di Ernesto ciò che Milan Kundera scriveva ne L’Insostenibile leggerezza dell’essere: “I personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate…ciascuno di essi ha superato un confine che io ho solo aggirato. È proprio questo confine superato (il confine oltre il quale finisce il mio io) che mi attrae. Al di là di esso incomincia il mistero sul quale il romanzo si interroga. Un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato”.

Se il romanzo ha, in quanto tale, una funzione vitale “pro-creativa”, ciò che genera non è un’auto-biografia tour court, bensì una “biografia del possibile”, del dispiegarsi creativo delle possibilità realizzabili.

 

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