“Persona” di Ingmar Bergman: la rivincita dello sguardo
Uscito nel 1966, interpretato da Bibi Andersson e Liv Ullmann, due delle attrici-feticcio del maestro svedese, Persona di Ingmar Bergman è la storia di due donne. Elisabeth Vogler è una celebre attrice che, vittima di un trauma inspiegabile, durante una rappresentazione dell’Elettra ha improvvisamente smesso di parlare chiudendosi in un mutismo assoluto; Alma è l’infermiera cui la dottoressa che ha in cura Elisabeth affida il compito di dedicare attenzione alla sua paziente. Il rapporto tra le due donne assumerà sviluppi imprevisti e sconvolgenti.
Persona è uno dei film più sperimentali dell’autore de Il settimo sigillo, una delle vette della sua corposa filmografia, soprattutto perché mostra lo straordinario senso del cinema di un autore talora tacciato, anche se forse non del tutto a torto, di avere girato anche opere viziate da un eccesso di teatralità e verbosità (e il pensiero va qui immediatamente a Scene da un matrimonio, del 1973, un interminabile dialogo a due voci di lunghezza quasi estenuante). Persona è un’opera complessa, profonda e stratificata, che si apre con la visione di una serie di immagini cinematografiche, senza apparente legame l’una con l’altra, e si chiude con una pellicola che si accartoccia, a voler ricordare allo spettatore che egli sta assistendo innanzitutto a un’opera di finzione. Non a caso, uno dei titoli cui Bergman aveva pensato per il film era proprio “Cinematografo”.
Le immagini che scorrono davanti agli occhi dello spettatore prima dell’inizio del “vero” film, sono una splendida metafora del cinema come porta socchiusa che a mano a mano si spalanca sino ad allargare l’orizzonte visivo, quasi a dimostrare che dietro l’immagine che vediamo ce n’è un’altra e dietro di essa un’altra ancora, in una successione virtualmente interminabile come la serie dei numeri. E difatti Persona è proprio una storia di sovrapposizioni e sovrimpressioni non soltanto visive ma anche, anzi soprattutto, mentali.
È soprattutto un film di volti, Persona, come dimostra la sequenza formidabile, di grande forza rappresentativa, nella quale i volti delle due protagoniste, dapprima accostati, arrivano a fondersi, a mescolarsi, provocando quasi per magia l’annullamento pressoché totale delle differenze somatiche, un annullamento che assurge a simbolo perfetto dell’identificazione interiore che si è realizzata tra le due donne. D’altronde, il cinema di Bergman ha dimostrato tante volte di essere proprio questo: un cinema di soggetti che (si) guardano o sono guardati (basterebbe citare titoli come, appunto, Il volto (1958), o Come in uno specchio (1960), e L’immagine allo specchio (1976). Nelle opere di Bergman il volto è presente in tutta la sua pesantezza, assume le sembianze di una “cosa” massiccia e opaca, una specie di crosta che si espande intorno agli occhi, quasi un’ingombrante appendice del senso visivo. In questo senso, allora, Persona si fa opera paradigmatica in cui il cinema, nella sua qualità di puro occhio, diventa l’arma non convenzionale (in tutti i sensi) che realizza la rivincita dello sguardo.
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