“Pickpocket” di Robert Bresson, la sconfitta del superuomo
“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio”
Robert Bresson
“Questa storia è vera. Io la racconto com’è, senza inutili ornamenti”. Così, con stupenda ironia d’artista, si apre Un condannato a morte è fuggito, forse il più grande film di ambiente carcerario mai realizzato. Pickpocket (noto in Italia anche come Diario di un ladro) non è una storia vera ma è raccontata anch’essa “senza inutili ornamenti”, in obbedienza a quel rigore estremo, a quello stile austero, a quell’economia della forma che hanno contraddistinto dall’inizio alla fine i quarant’anni e più di carriera (ma con “solo” 13 film all’attivo) di uno dei maestri del cinema: Robert Bresson, figura di regista-filosofo come Terrence Malick, ma privo della magniloquenza dell’attenzione alla Natura del collega americano.
Alla sua uscita, l’anno di (cinefila) grazia 1959, Louis Malle, a quei tempi redattore della rivista “Arts”, definì Pickpocket “una delle quattro, cinque grandi date della storia del cinema”. E, ad avviso di chi scrive, probabilmente non esagerò. Si tratta infatti di un’opera straordinaria in cui la ricerca formale di Bresson raggiunge livelli espressivi talmente elevati che non è eccessivo parlare di un vero e proprio rinnovamento linguistico. Con questo film, ma forse già col precedente Un condannato a morte è fuggito, citato poc’anzi, il maestro francese mostra una maniera del tutto nuova in cui è possibile raccontare una storia al cinema. La messinscena è volutamente scabra, essenziale, ostinatamente anti-teatrale, anche e soprattutto nei dialoghi secchi, quasi fulminei, sublimi nella loro perfezione e nel loro programmatico rifiuto del naturalismo. “Chiamerai bello il film che ti darà un’idea alta del cinematografo” sosteneva infatti il regista.
Il film racconta di Michel, il borseggiatore del titolo, il cui costante e quasi compulsivo impegno nel derubare le persone non ha come scopo l’arricchimento personale ma si presenta come un modo, da parte del protagonista, di sfogare la sua ansia di superomismo. Egli sembra mosso unicamente dall’ambizione di dimostrare che esistono uomini che sono dotati di superiore intelligenza e lucidità, il che conferisce loro una sorta di diritto di sopraffazione verso gli altri, alla faccia di Dio. “Ho creduto in Dio nella mia vita. Per tre minuti.” – dirà Michel ala dolce Jeanne (la bellissima Marika Green) attaccando la supina accettazione del dolore da parte della ragazza. Ma non siamo dalle parti di Friedrich Nietzsche, semmai da quelle di Dostoevskij e di uno dei suoi capolavori, Delitto e castigo, romanzo al quale il film certamente si ispira, e nel quale compare per la prima volta il famoso concetto del superuomo, qualche decennio prima della problematizzazione operata dal filosofo tedesco.
Pickpocket non è tuttavia un’opera disperata, come saranno invece i successivi (e tardi) Il diavolo, probabilmente (1978) e L’argent (1983), gli ultimi due film del regista, opere nelle quali le forze del Male otterranno la definitiva vittoria e faranno virare la visione esistenziale di Bresson verso una sorta di pessimismo cosmico, dove il dolore sarà inguaribile e il riscatto solo una chimera. In Pickpocket c’è ancora spazio per la redenzione e la grazia: sarà questo, infatti, il cammino compiuto dal protagonista. Come il Raskol’nikov dostevskijano anche Michel troverà in Jeanne la sua donna-angelo, la quale si porrà come una sorta di argine spirituale di fronte alla deriva del suo nichilismo.
La scena finale, quadratura del cerchio, sancirà la definitiva presa di coscienza di Michel: la rivelazione di se stessi, di quello che siamo, non può che avvenire attraverso la mediazione dell’Altro. Perché, come affermato da Jeanne, tutto ha forse una ragione.
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it