Venezia 74: arriva George Clooney ma la sorpresa è iraniana
Oggi a Venezia è il giorno di George Clooney, che porta in Concorso Suburbicon, suo sesto lungometraggio. Ambientato negli anni ’50 nella cittadina immaginaria del titolo, il film ruota attorno a Gardner Lodge (Matt Damon, in Concorso anche con Downsizing), un uomo d’affari la cui casa dove vive con la moglie paraplegica e il figlioletto, viene assalita da una coppia di banditi. Nel corso dell’aggressione, la donna muore e la cognata (gemella della defunta, entrambe interpretate da una Julianne Moore raramente così spenta) si trasferisce nella casa per fare da madre al bambino. Poco dopo, comincerà ad affiorare una verità inquietante sul delitto. Intanto, Suburbicon è in subbuglio per l’arrivo in città di una famiglia di colore, i coniugi Mayers, contro la quale l’intera comunità metterà in atto una vera e propria rivolta.
Suburbicon prende spunto da un reale fatto di cronaca (almeno per quanto concerne la vicenda dell’ostilità contro la famiglia Mayers) e vi innesta una commedia thriller sullo stile di Fargo e Burn After Reading. Non a caso, Clooney ha ripreso dal cassetto un vecchio soggetto propostogli nel 1999 da Joel e Ethan Coen e ha scritto il film insieme ai due fratelli del Minnesota e al fidato Grant Heslov, sceneggiatore anche di alcuni lavori precedenti del regista: Good Night and Good Luck, Le idi di marzo e Monuments Men, forse a tutt’oggi il suo film più opaco. Suburbicon è impreziosito dalla fotografia di Robert Elswit (premio Oscar per Il petroliere di Paul Thomas Anderson) e dall’ottimo lavoro dello scenografo Jim Bissell, che ricostruisce la cittadina in cui gli eventi hanno luogo. La fotografia e la scenografia sono infatti le cose migliori di un film per il resto piuttosto modesto, che riprende temi e stile dei film sopra citati senza immettervi alcun elemento di novità e, al di là delle intenzioni dichiarate, con assai minore cattiveria. Persino lo script appare piuttosto prevedibile, annegando lo spettatore dentro le paludi del déjà-vu. Tra gli attori, ci sentiamo di segnalare solo la prova di Oscar Isaac, già con i Coen in A proposito di Davis, presente però solo in un paio di sequenze.
In un Concorso che, Schrader a parte, non sembra ancora aver regalato grandi film, si segnalano anche le delusioni di Andrew Haigh e Samuel Maoz. Il primo, reduce da due ottimi film come Weekend e 45 anni, ha portato al Lido Lean on Pete, storia di un ragazzo che, dopo la morte del padre, si affeziona ad un cavallo e cerca di portarlo con sé a casa di una zia che non vede da anni. Si tratta, dunque, di un film a metà strada tra il road-movie e il racconto di formazione che, dopo una prima parte molto efficace, inanella una serie di scelte narrative a dir poco discutibili, al quale si aggiunge una scarsa attenzione alle dinamiche psicologiche. Per chi scrive, una delle grandi delusioni del Concorso. Per quanto riguarda Samuel Maoz, vincitore del Leone d’oro nel 2009 con il fortunato esordio Lebanon, ieri è stato presentato alla stampa Foxtrot, opera dalla costruzione ambiziosa che ruota intorno ad una coppia israeliana che riceve la notizia della morte del figlio in guerra. L’uomo e la donna sono costretti a fronteggiare il lutto fino a quando il regista crea un vero e proprio twist nella trama, quasi divertendosi a sparigliare continuamente le carte ma senza riuscire a realizzare un’opera veramente convincente.
Come spesso accade, non solo a Venezia, le sorprese migliori si finisce allora per trovarle spostandosi un po’ nelle altre sezioni, competitive e non. In particolare, in “Orizzonti” abbiamo potuto apprezzare il bellissimo No Date, No Signature, secondo lungometraggio di Vahid Jalilvand dopo Wednesday May, 9 che, collocato nel 2015 nella stessa sezione, si aggiudicò il Premio Fipresci. La vicenda del film ruota attorno ad un medico legale che una sera investe con l’auto una famiglia di quattro persone senza provocare loro alcun danno grave, almeno in apparenza. Qualche giorno dopo, però, uno dei due bambini della coppia muore. L’autopsia rivela che la causa del decesso è una grave infezione alimentare, causata dall’ingestione di cibo avariato. Tuttavia, tormentato dal senso di colpa, il medico cercherà di scoprire se esiste un’altra verità per assumersi le sue eventuali responsabilità. No Date, No Signature è un dramma morale di grande complessità, scritto con minuziosa precisione e profonda attenzione all’universo psicologico dei vari personaggi, che pone allo spettatore grandi interrogativi morali senza cercare mai di influenzare il suo giudizio. Mirabilmente recitato da tutti gli interpreti, il film sembra fare tesoro della lezione di Asghar Farhadi fondendo l’analisi dell’attuale società iraniana con l’indagine degli oscuri anfratti del cuore umano. Un grande film che avrebbe meritato il Concorso.