Venezia 74 “The Third Murder”: la verità e il giudizio secondo Hirokazu Kore-eda

Un uomo viene assassinato brutalmente su una spiagga e il suo corpo cosparso di benzina prima di essere bruciato. Ma non si tratta di un whodunit alla Hitchcock nel quale la domanda sarà, cioè, “chi è il colpevole”? in quanto vediamo subito il volto dell’assassino: si tratta di Misumi, un uomo sulla sessantina che ha già scontato una pena per un altro duplice omicidio commesso trent’anni prima. La difesa dell’imputato viene assunta dal brillante avvocato Shigemori ma il suo compito si rivela piuttosto complicato in quanto l’assassino è reo confesso e rischia la pena di morte. Tuttavia, addentrandosi a fondo nel caso, Shigemori scopre che la verità è molto più complessa di come sembra.

Ieri sera è stato presentato alla stampa (accolto positivamente ma senza particolare fragore) The Third Murder, il nuovo meraviglioso film di Hirokazu Kore-eda che proprio a Venezia portò in concorso nel 1995 il suo film d’esordio, Maboroshi no hikari. Partendo da una storia in apparenza convenzionale (un dramma giudiziario in cui un avvocato cerca di limitare i danni per il suo cliente), il regista giapponese tesse intorno allo spettatore, lentamente ma con grande maestria, una fitta ed intricata rete all’interno della quale si è costretti a modificare progressivamente il proprio punto di vista sulla vicenda ed il proprio giudizio sui personaggi in virtù di una serie di rovelli morali che smantellano una ad una le certezze iniziali. Infatti, parlando dell’idea dalla quale è nato il film, Kore-eda racconta di aver voluto fare un’opera nella quale doveva emergere la differenza cruciale esistente tra il “giudizio” e la “verità”. In questo senso, mentre la prima di queste due categorie è appannaggio delle aule di tribunale, luogo che si limita a mettere insieme una serie di fatti ed azioni compiute dagli uomini per poi sintetizzarle attraverso l’emissione di una sentenza, la seconda è qualcosa di molto più sfuggente e mutevole, una sorta di bersaglio mobile che obbliga chi la insegue a mutare continuamente posizione e prospettiva. Se i tribunali – sembra suggerire il regista – tenessero conto degli elementi disparati e inafferrabili che compongnono la verità, è probabile che la giustizia umana non sarebbe in grado di condannare nessun uomo, di passare in giudicato alcuna sentenza. Con una sceneggiatura perfettamente calibrata, Kore-eda toglie lentamente la maschera al dramma processuale che la prima parte sembra imbastire, per trasportare lo spettatore dentro il suo film probabilmente più dostoevskjiano dove, proprio come in Delitto e castigo del grande romanziere russo, l’atto omicida, per quanto grave, è solo la goccia di un oceano nel quale nuotano le più grandi contraddizioni e dove la “bontà”, la “moralità”, ciò che è giusto o sbagliato, sono concetti che svaporano, incapaci di sopportare lo sguardo profondo e attento che dovrebbe essere sempre lanciato sugli eventi. Allo stesso tempo complesso e limpidissimo, The Third Murder è in assoluto uno dei migliori film di un Concorso che sinora si sta rivelando di livello medio ma con numerose punte verso l’alto.

Buone notizie vengono questa volta anche dal cinema italiano con Gatta Cenerentola (nelle sale italiane dal 14 settembre) diretto da un quartetto di registi capitanato da Alessandro Rak (gli altri tre sono Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone), autore del fortunato L’arte della felicità, presentato proprio qui a Venezia nel 2013. Tenendosi a distanza sia dalla favola di Giambattista Basile che dal celebre e splendido adattamento teatrale di Roberto De Simone i registi scelgono di raccontare la favola di Cenerentola ambientandola in una Napoli irreale, avveniristica e un po’ improbabile, dove la figura del re viene sostituita da quella di un boss della malavita, il castello diventa una nave dove si praticano l’omicidio e il traffico di droga, e Cenerentola è una ragazzina muta che non ha mai lasciato l’imbarcazione. Scintillante e strabordante di invenzioni visive e sonore, Gatta Cenerentola è un film che dà molte speranze al cinema di animazione nostrano, genere assai deficitario e che sembra aver trovato in Alessandro Rak e nei suoi collaboratori uno dei talenti più promettenti su cui poter contare, a patto di avere qualcuno che ci creda al punto da investire il denaro necessario alla bisogna.

C’è da dire, però, che il film non manca di qualche difetto estetico e di alcuni limiti narrativi, e appare poco convincente l’idea di trasformare uno dei classici dell’universo partenopeo in un’opera così smaccatamente noir trapiantando nella vicenda una sorta di modello-Gomorra (una scelta che forse potrebbe pagare al botteghino) con il suo inevitabile campionario di omicidi, sparatorie e accoltellamenti. Da Gatta Cenerentola messa in scena dai registi è praticamente assente il popolo, cioè uno dei punti di forza e dei motivi di maggiore successo ed interesse  sia del testo di Basile che del lavoro curato dal maestro De Simone, con il suo corteo di “villanelle”, “moresche” e “tammurriate”, il che rischia di rendere il film nient’altro che un rutilante, per quanto affascinante, contenitore di mirabilie ed esplosioni di colore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!