Venezia 74, “L’intendente Sanshô”: il cinema limpido di Kenji Mizoguchi
Sono circa una novantina i film girati da Kenji Mizoguchi, dei quali però circa i due terzi sono andati perduti o sono ridotti a brandelli finendo quindi, in un’ideale classificazione cronologica, sotto la definizione di “frammentario”. Nel 1980 la Mostra del Cinema di Venezia gli aveva dedicato una Retrospettiva che comprendeva trenta titoli, cioè praticamente tutta la sua opera esistente. In questa 74° edizione della Mostra sono stati presentati ben due lavori del regista nipponico, uno dei massimi maestri del cinema mondiale: Amanti crocifissi e, appunto, L’intendente Sanshô. Il restauro è avvenuto grazie alla Kadokawa Corporation, alla The Film Foundation fondata da Martin Scorsese, e con la collaborazione di The Japan, Foundation. Molto emozionante è stato il momento in cui, prima della proiezione, gli spettatori accorsi in sala hanno potuto ascoltare le parole di Kyōko Kagawa, la protagoinista del film (nata nel 1931) che ha salutato il pubblico e ringraziato la Mostra per l’ospitalità.
Mizoguchi è stato un cineasta la cui grandezza può essere accostata a quella di altri grandissimi registi del suo Paese come Akira Kurosawa, Yasujiro Ozu, il troppo spesso dimenticato Mikio Naruse, Kon Ichikawa, Nagisa Oshima (per citare solo i più famosi). I film di Mizoguchi sono opere di ieratica perfezione visiva e formale che hanno quasi sempre al centro meravigliosi personaggi femminili, figure allo stesso tempo fragilissime e rocciose, in perpetua lotta contro le costrizioni sociali della società patriarcale giapponese e capaci di straordinari slanci morali, spesso decisivi per la salvezza dei propri uomini, siano essi figli, genitori, mariti o amanti. Tra le attrici di Mizoguchi va ricordata, oltre alla Kagawa, anche la bravissima Tanaka Kinuyo (che ha lavorato anche con Ozu, Ichikawa e Kurosawa), interprete di tre dei film più importanti del regista: Vita di O’Haru, donna galante (1952), I racconti della luna pallida d’agosto (1953) e L’intendente Sanshô (1954), tre pellicole tutte presentate e premiate a Venezia, e che hanno contribuito in maniera decisiva alla scoperta nel nostro Paese di un cineasta attivo sin dal 1923.
Ambientato nel Giappone feudale del XI secolo, L’intendente Sanshô è tratto da un’antica leggenda giapponese, della quale di cui esistono diverse versioni a partire dal XVI secolo, sebbena la più famosa sia quella scritta nel 1915 da Mori Ogai. La storia ruota intorno alla disgregazione e allo smembramento di una famiglia, costretta all’esilio dopo che il capofamiglia, un governatore troppo generoso verso i suoi sudditi, è stato esautorato dall’incarico. La moglie viene rapita e destinata alla prostituzione mentre i due figli, Zushio e la soave Anju, sono venduti ai mercanti di schiavi e finiscono nelle grinfie del crudele intendente Sanshô. Il film di Mizoguchi descrive con maestria il dualismo tra crudeltà e pietà, l’opposizione tra vendetta e misericordia, tra il realismo spesso cruento delle immagini e la sacralità e la spiritualità, tutta laica, dei rapporti tra i membri della famiglia. In questo senso, assumono particolare rilievo almeno due sequenze, in evidente contrasto dialettico: la marchiatura col ferro rovente sulla fronte degli schiavi fuggitivi (memorabile esempio di “cinema della crudeltà”, come segnala giustamente Pascal Bonitzer sui Cahiers du cinéma) e l’indimenticabile sequenza del suicidio di Anju, che si sacrifica per consentire la fuga ed il successivo ritorno in patria del fratello, ennesima riprova del coraggio e dell’abnegazione femminili che dominano il cinema di Mizoguchi.
Il regista guarda alla storia del suo Paese, descrivendo la barbarie dei secoli passati con sguardo lucido che punta in particolare sulle doti dei singoli piuttosto che su quelle di un popolo che appare incapace di ribellarsi e il cui riscatto non può essere affidato che al coraggio e all’abnegazione del singolo, alla capacità di riscatto da parte degli individui dotati della forza morale necessaria a provocare una svolta negli eventi.
Parabola politica sulle colpe storiche del Giappone ma anche splendida e dolente sinfonia acustica e visiva, superbo racconto morale, grido di rivolta contro la tirannia e la sopraffazione che dominano i rapporti umani, L’intendente Sanshô è un’opera altissima, di valore inestimabile in cui la maestria registica di Mizoguchi e la luminosità delle immagini del direttore della fotografia Kazuo Miyagawa contribuiscono ad uno dei più grandi risultati mai raggiunti dalla cinematografia mondiale. Come sottolinea il critico inglese Mark Le Fanu, L’intendente Sanshô è uno di quelle opere grazie alle quali il cinema esiste. E noi sottoscriviamo.
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