“Che i bastardi non ti schiaccino”. Il progetto di Gilead e il punto debole dei sistemi di “illibertà” – Seconda parte
di Marco Antonio D’Aiutolo
“Il grado e la specie della sessualità d’un individuo
penetrano fino al più alto grado nel suo spirito.”
Friedrich Nietzsche
Ispirata al romanzo distopico di Margaret Atwood, la serie tv The Handmaid’s Tale-Racconto di un’ancella, descrive una società immaginaria, Gilead, in cui le donne non fertili, le Nondonne, vengono eliminate, e quelle fertili assegnate a famiglie con mogli sterili per assicurare la riproduzione. Nell’articolo precedente ho collegato il regime di questa società al medievalismo mediatico che caratterizza quelle odierne. In esse la perdita di ogni significato del linguaggio rende l’umanità incapace di esprimere e riconoscere la propria “illibertà”, pur illudendosi di farne uso. Ho concluso, infine, osservando che entrambi i sistemi di illibertà hanno in comune il fondamento: poggiano sulla seguente visione lacaniana, estesa però all’umanità intera: “L’uomo non esiste”.
“Dio esiste, Dio non esiste: che importanza ha? Vi siete mai chiesti se l’uomo esiste?” gridava Schloime, lo scemo del villaggio, in Train de vie, brillante commedia diretta nel 1998 da Radu Mihăileanu. È la stessa domanda attanagliante che pongo al lettore. Ma in che senso la intendo? Muovo, innanzitutto, dalla convinzione che il Progetto di Gilead ha similitudini con quanto il già citato storico George Mosse, in Sessualità e nazionalismo, ha tracciato della nascente società borghese europea del Settecento, portato alle estreme conseguenze. Qui, la rispettabilità è posta a salvaguardia di un sistema di valori fondati sull’ideale di virilismo e sulla virtù delle donne: mogli e madri relegate in casa, con il solo scopo di procreare ed educare la prole. Questo sistema, nato dal bisogno di stabilità sociale, è confermato dalle sedicenti scienze, dalla medicina, dall’arte e dalla letteratura, ha contribuito a creare stereotipi e finisce per coinvolgere le altre classi sociali. Sono esclusi, come malati e minaccia di quella stabilità, fino a promuoverne l’eliminazione fisica, tutti i riottosi: malfattori, ebrei, omosessuali, androgeni, lesbiche, donne mascoline, donne-soldato, la femme fatale.
Anche The Handmaid’s Tale tratta la condanna dovuta all’opaca distinzione tra normale e anormale, naturale e innaturale, e del lavoro tra maschio e femmina: il primo è, appunto, virile, attivo socialmente, culturalmente, sessualmente, la seconda invece è passiva negli stessi campi. La donna può anche valere se si comporta come un uomo e solo se lo fa per un tempo breve. In lei deve restare il desiderio nostalgico del ritorno al focolare domestico e dell’indossare abiti femminili.
Come sono descritti invece gli uomini di Gilead? Nell’articolo precedente ho parlato delle case di tolleranza di Gilead e dell’ipocrisia di alcuni Comandanti. C’è un rapporto tra questi due aspetti che ricorda ciò che dice Bertrand Russell, in Matrimonio e morale: “Sino a che si darà tanta importanza alla virtù delle donne, l’istituzione del matrimonio deve essere coadiuvata da un’altra istituzione che perciò diventa parte di esso, voglio dire la prostituzione”. Molti uomini, insoddisfatti da restrizioni, decoro e limitazioni di un matrimonio convenzionale, “trovano in occasionale visita ad una prostituta uno sfogo meno antisociale di altri a loro portata di mano”. L’elemento interessante qui è allora la sessualità dell’individuo, se è vero che essa penetra il più alto grado del suo spirito, secondo l’aforisma 75 di Nietzsche, in Al di là del bene e del male.
In effetti l’altro nesso tra Sessualità e Nazionalismo e The Handmaid’s Tale è proprio il rapporto tra atto sessuale, ridotto al suo fine biologico, e corpo, spogliato di ogni sensualità. Non è ammesso il nudo a Gilead e sussistono molteplici forme di repressione. Ma viene giustificata una Cerimonia come la fecondazione dell’ancella, nella modalità più anonima, asessuale e distaccata possibile. È uno stupro sessuale, privo d’ogni violenza “esplicita” e senza alcuna considerazione dei sentimenti dei soggetti coinvolti (il Comandante che penetra, l’ancella penetrata, la moglie che soffre la situazione, pur desiderando un figlio). Sebbene sotto minaccia di pene detentive, si ha la pretesa di raggiungere la piena accondiscendenza, l’assuefazione di ogni passione umana che sfugge a ogni controllo. Si tratta, più che di corpi e soggetti, di cose strumentali all’attuazione del bene comune.
È la stessa “cosificazione” generata dai social network e che si manifesta bene nell’atteggiamento dei vari personaggi della serie TV, tra cui Difred, l’ancella dei Waterford, che, per giustificare la propria illibertà, ripetono: “non posso fare altrimenti, il sistema lo impone”. È il meccanismo di eliminazione di ogni opposizione a- attraverso l’appropriazione e il soffocamento nel caos del dispositivo comunicativo. È la massima manifestazione de “l’uomo non esiste”, simile a quella dei Comandanti e delle mogli, convinti di non aver altra scelta che avallare una simile condizione, funzionale all’efficienza del sistema, che deve sussistere perché l’uomo non è capace di autonomia. Ma si tratta di “stronzate fatalistiche”, il credere cioè che il fato (qualsiasi cosa esterna o superiore: Dio, destino, natura, persino quella umana, o potere politico e i detentori di Facebook), privandoci completamente della libertà, ci costringono alla nostra sottomissione irresponsabile: l’eliminazione appunto dell’atto soggettivo.
Ne parla Alenka Zupančič nel suo Etica del Reale: “Mentre creature umane, meccaniche, espèces, possono essere gabbate con questo tipo di ‘stronzate fatalistiche’, è imperdonabile, per una persona che si reputa un soggetto autonomo, rivolgere una tale scusa a un altro soggetto autonomo”. L’uomo, scrive Kant, in Risposta alla domanda: cos’è l’illuminismo?, accetta di restare in uno stato di minorità e non sottrarsi per “viltà e pigrizia”, favorendo l’ergersi su di esso di tutori. Questi lo rendono istupidito, impedendo che si muova “un passo fuori dal girello da bambini”; e descrivono il pericolo di “minaccia” se solo tentasse di camminare solo.
Kant stesso ne mostra la via d’uscita. Secondo un esempio, riportato in Critica della ragion pratica, se un potere politico ci imponesse, sotto minaccia di morte, di compiere un’ingiustizia (la falsa testimonianza contro un innocente), noi potremmo anche sottometterci per paura, ma la nostra ragione pratica “non riterrebbe possibile passarci sopra”. Ed è ciò che accade a Difred: il solo fatto di concepire lo scandalo nell’ingiustizia, come il tradire l’ancella, scoperta in una relazione con un’altra donna e sentirsi “costretta a sottomettersi”; il conflitto tra coscienza morale e ordine costituito (dicotomia tra moralità interiore ed etica, come sistema di valori imposti dall’esterno) è già un riconoscimento: “giudica, dunque, che può fare qualcosa perché è cosciente che deve farlo, e riconosce in sé la libertà” (Kant). La stessa ipocrisia dei maschi di Gilead, la prostituzione delle non-assimilate, le non-assimilate, il rapporto sessuale che Difred vive, fuori dalla “Cerimonia”, con il giovane custode dei Waterford, come ribellione, sono certo prodotti del sistema totalitario e reazionario, ma quali atti di uomini e donne che non si lasciano integrare, sintetizzare in esso.
Atti di liberazione emergono ovunque nella serie TV. Hanno a che fare con il ricordo per il compagno perduto, ma poi scoperto in salvo. Sorgono con la morte della partner, impiccata dinanzi agli occhi dall’ancella amante e impotente. Sono impliciti nelle amicizie che non vengono meno, malgrado il terrore psicologico, nel bisogno di ritrovare Anna, la figlia perduta, di averla rivista anche solo per un attimo. Sono nella solidarietà che si genera tra le ancelle prigioniere o che Difred percepisce, vissuta da altri, quando legge le lettere, fattele pervenire dal movimento clandestino di resistenza. Si tratta di sentimenti, relazioni e forti vincoli umani, ma che non potrebbero realizzarsi se non vi fosse quel sentirsi “in obbligo”: riconoscimento di libertà morale, di autonomia. Lo spirito umano re-agisce, scardina la società perfetta dall’interno, ne è il punto debole.
La serie TV, quindi, (e, a mio avviso, ogni opera cinematografica e letteraria ben riuscita) mostra la possibilità di affrancamento delle esistenze umane. “Nolite te bastardes carborundorum” è l’imperativo che Difred trova sul legno dell’armadio sgabuzzino, inciso con una spilla dall’ancella che l’aveva preceduta, prima di suicidarsi. È in latino maccheronico e significa: “Che i bastardi non ti schiaccino”. E Difred non si lascia schiacciare e, dal sempre più crescente senso di giustizia e consapevolezza che “qualcosa deve fare”, passa all’azione morale concreta. Affronta, con risentimento morale, le “stronzate fatalistiche” del custode-amante, gli impone di chiamarla con il suo vero nome, June Osborne, rivendicando il riconoscimento del suo esistere. E, nell’ultima puntata della prima stagione, quando alle ancelle viene intimato di lapidare quella che ha trasgredito la “legge”, Jude, malgrado la minaccia di percosse, si rifiuta: lascia cadere la pietra. La sua decisione coinvolge tutte. E dopo questo fenomeno di libertà, la donna si esprime con parole significative: “Abbiamo detto no, non abbiamo fatto il nostro ‘dovere’ (uccidere Janine) e saremo punite. Sono in disgrazia, che è l’opposto della grazia. Dovrei sentirmi terrorizzata. Invece mi sento serena, in pace. C’è qualcosa che somiglia alla speranza anche nelle banalità. Ho provato a rendere le cose migliori per Anna, a cambiare il mondo. Anche solo per un po’”.